L’accademia dei Fisiocritici e l'Orto botanico

fisio

L’Accademia dei Fisiocritici nacque nel 1691 su iniziativa del suo ideatore e promotore Pirro Maria Gabbrielli (1643-1705), docente di Medicina e Botanica presso l’Università di Siena, il quale esercitava presso il Santa Maria della Scala.

Proprio presso l’antico ospedale e grazie anche all’entusiasmo di alcuni studenti mosse i primi passi l’Accademia delle Scienze, l’impianto metodologico sarebbe stato coerente col rinnovamento culturale in atto in Europa in quegli anni, la conoscenza empirica  e sperimentale sarebbero stati il motore del lavoro dell’ Accademia, superando con decisione gli ormai obsoleti dogmi aristotelici. I rami di ricerca, rispecchiando la personalità poliedrica del suo fondatore, spaziavano dall’anatomia alla botanica, alla chimica, alla mineralogia, ma anche alla zoologia e all’astronomia.

giardino orto

Al fine di marcare ancora di più la rottura col passato, venne sostituito il nome troppo generico di Accademia delle Scienze con quello di Fisiocritici, fusione delle parole greche physis (natura) e criticos (giudici), mentre il motto scelto dall’ istituzione “veris quod possit vincere falsa” è una citazione del De rerum natura di Lucrezio.

Non tardarono anche ad arrivare i riconoscimenti sia per Gabbrielli, elevato a membro dell’Accademia Imperiale in Germania, che per la sua creatura che vide intensificarsi i rapporti con altre accademie di tutta Europa. Nel 1694, Gabbrielli mise appunto l'”eliometro fisiocritico” facendo di Siena la quarta città di tutto il continente a dotarsi di questo strumento.

In seguito al terremoto del 1798, nel corso del 1816 la sede dell’istituzione venne trasferita presso gli spazi dell’ ex-convento di Santa Mustiola, appartenuto ai frati camaldolesi la cui esistenza in loco è documentata fin dal XIII secolo.

L’ingresso dell’accademia si trova presso la piazzetta Silvio Gigli (storico commentatore radiofonico e tartuchino verace) e quindi proprio di fronte ai nuovi locali della Società di Mutuo Soccorso Castelsenio, incastonando la struttura museale nel centro delle attività della contrada.

mattioli

Nel 1856 l’orto botanico universitario, collocato presso il Santa Maria della Scala, fu trasferito per motivi di spazio proprio nei terreni che circondano le strutture dell’Accademia divenendo parte integrante della stessa, nel corso degli anni fino ai giorni nostri ha subito numerosi ampliamenti, vi sono conservate piante autoctone ed esotiche, oltre a varie serre. Questi luoghi, nonostante ancora finalizzati alla ricerca scientifica, grazie alle vaste collezioni custodite all’interno dell’Accademia, ai suoi giardini e agli spazi dell’orto botanico, rendendo assai interessante e particolare una visita dell’intero complesso. All’ingresso dell’accademia è possibile osservare una lapide bronzea dedica a Pietro Andrea Mattioli, illustre medico senese del XVI secolo che praticò presso la corte imperiale, a lui è anche dedicata la via che scende verso Porta Tufi.

Considerando la presenza del Collegio Tolomei dove si preparavano gli studenti alla carriera medica e l’attività educativa del pionere Tommaso Pendola, possiamo affermare che il territorio della contrada della Tartuca possiede un’incontestabile vocazione storico-scientifica.

Bibliografia:  

Marcucci M., Accademia dei Fisiocritici, in Adorno F. (a cura di), Accademie e istituzioni culturali in Toscana, Firenze, Leo S. Olschki, 1988.
Regione Toscana (a cura di), I giardini di Toscana, Firenze, Edifir, 2001.

Laerte Mulinacci

Galliano Gigli. Nelle cose che amava vivrà il suo ricordo

galltondo

Lo rivedo ancora gridar, desolato e pallido venendo su di corsa dal Casato: "Fermi tutti, ragazzi ha vinto la Chiocciola! Fermi! Fermi!". Chi aveva in mano la bandiera e si apprestava a farsi incontro al drappellone, la lasciò cadere e via delle Murella fu come per incanto pavimentata di giallo e celeste. Era il "49. Allora disguidi del genere potevano accadere. Il sistema delle comunicazioni era molto rudimentale, fatto di accenni, gesti e voci, esposto a fraintesi o abbagli. Calò un silenzio gelido. Nella mia fantasia di ragazzo - avevo dieci anni ed ero affacciato alla finestra di casa che dava sulla via ribattezzata Tommaso Pendola - la scena si lega a quella della "Bella addormentata nel bosco", quando i personaggi del castello ed ogni elemento di vita ammuto­liscono e diventano pietra.

Appena dopo, nel veder tutte le bandiere a strascico per le pietre, colui che aveva ordinato l'alt con un urlo strozzato urlò perentorio: "Riponete le bandiere, senno si sciupano! Per bene, per carità! Per bene!". La prima immagine che conservo e conserverò sempre di Galliano Gigli è questa. L'ho spesso richiamata alla mente in questi lunghi anni, per lui sofferente, e mi son detto: c'è già tutto Galliano. C'è la sua paterna ed esigente autorità, a cui non si poteva opporre rifiuto. Era uno di quegli uomini che hanno il do­no di farsi ascoltare perchè pos­siedono una sorta di carisma fa­miliare e amabile, avvolgente e umanissimo. E' una qualità, a ben vedere, che non s'identifica con gerarchie o ruoli consacrati. Galliano ha prediletto la fatica dei lavori umili, l'ardore delle passioni vere, e dei talenti che aveva a disposizione ha ricavato solo ciò che più conta: l'affetto di chi gli stava intorno, la stima della Contrada, l'ammirazione dei giovani, il rispetto non timoroso.

gallianoC'è anche, in quell'immagine che ritrovo, l'attaccamento alle cose, che egli ha insegnato come virtù fondamentale. Quando si smaniava per i braccialetti deteriorati o insisteva per la cura dei costumi o si aggirava per i locali a rovistare, pulire, mettere in ordine, Galliano incarnava uno dei tratti essenziali dell'anima che sorregge l'appartenenza della Contrada: quel ritenere - un po' folle, spasmodico e irragionevole - che la memoria ed il senso di identità comunitaria siano affidati agli oggetti, agli emblemi, alle figura, alle stoffe, alle pietre, ai mattoni, alle lastre. Insomma che siano materiali e risorgano per magia scaturendo da quella materialità, a suo modo sacra, inviolabile. C'era, poi, in quei gesti convulsi e disperati per un Palio non vinto ("Bazza a chi tocca!") la vena drammatizzante di Galliano. Però le sue invettive non perdevano mai il filo della razionalità, nè inducevano allo sconforto. Quest'uomo segaligno e tutt'ossi aveva dentro un'energia incredibile, ed una cordialità misurata, ereditata dall'olimpica e severa signora Emma. Si spiega facilmente perchè il complimento più bello Galliano l'abbia avuto da un bambino, cui chiesero che voleva fa­re da grande in Tartuca. E lui rispose: "Galliano". Voleva dire, senza saperlo, che il giornalaio di via San Pietro, l'economo per antonomasia della Tartuca era un uomo-istituzione. Sono gli uomini con il loro servizio e la loro integrità a fare la dignità delle istituzioni, quando la stoffa c'è e quando c'è il cuore.

Per lui la Tartuca fu fino all'ultimo un amore totale, talmente pervasivo ch'è riuscito a combinarlo con quello per la famiglia, per la moglie, per i figli, per i nipoti, per Silvio, senza intaccarlo: ed è un miracolo che riesce a pochi. Quando si seppe che si sposava non sembrò vero. Quasi si avesse di botto la notizia che un trappista metteva su casa. Era impossibile scinderlo da Castelsenio, dall'armeggio continuo intorno alle monture, dai ricordi che riproponeva non cedendo a indugianti nostalgie. Glielo scrissero in un numero unico. Cito a memoria: a Galliano le bionde e le more strizzan l'occhio da tutti i giornali, lui sorride e l'amor lo va a fare nei nostri locali. Nel­ le cadenze di uno di quegli stor­nelli ad personam che nessuno sa più fare, si rintraccia un altro degli elementi che costituiranno la figura di Galliano: la sua identificazione totale, amorosa appunto, con la Contrada e con la sua fisicità: con i suoi spazi, i quadri e con i suoi riti, consue­tudini, calendario.

Lui era stato un tambu­rino perfetto, proverbiale, uno degli eroi di una comparsa leg­gendaria. Era come se un cantante di enorme successo fosse diventa­to, con gli anni, sovrintendente. Conosceva tutti galliano1i trucchi del me­stiere, i dettagli minimi e i figuranti che dovevano sfilare "nel Campo dell'onor" li metteva in scena su una ribalta. La sua bottega inevitabilmente si tramutò nel centro di relazioni, di informazioni, di incontri della Contrada. Lui stava dietro il banco colmo di giornali, al pari di un ospite disponibile e cortese in attesa. La sua libreria, e poi edicola, fu davvero una bottega come più non esistono, un centro di colloqui e di scambi in cui il comprare e il vendere diventavano un rapporto civile. La sosta era obbligata. Galliano dava le ultime notizie - altrochè i giornali disposti in fila! - la Tartuca e il Palio avevano un posto privilegiato nel periodico orale e quotidiano che si parlava da Galliano. Tutto passava al vaglio della critica, della battuta salace, del com­mento sornione. Era un club, si direbbe oggi, con i soci che non rinunciavano a trattenersi e chiacchierare. A ripensarla quel­la bottega non ampia e non parti­colarmente luminosa pare un tea­trino: rivedo il professor Dalmas con il bocchino sempre fumante, risento la risata del Pallassini, il borbottio del Merlotti.

E di tanto in tanto l'esplosione allegra di Mauro Barni, la parola severa di Giulio Pepi, la sorridente saggezza di Enzo Carli, che tra Pinacoteca e Galliano faceva ogni giorno la spola per prendere i giornali e tornare subito al lavoro. A suo modo quello spazio che sopravvive nella nostra mente, fu una scuola, con i segni di uno stile inconfondibilmente senese: il gusto della battuta secca e fulminea, il divertimento a parlare del mondo stando in un osservatorio appartato con un mi­sto di diffidenza e ironia.

E' sembrato un destino che l'ultima sosta di Galliano l'abbia dovuta fare non nell'Ora­torio, ma nei locali del museo diventati Oratorio. Era il suo luogo più caro. Il volto rimandava la serenità di un tempo. Gli hanno detto commossi addio tutti i suoi ragazzi, i ragazzi di ogni età. Lo hanno vegliato, amorose come lui era stato con loro, le cose della Tartuca, i drappelloni, i velluti, i braccialetti, quegli strani aggeggi che mille volte ha restaurato con Vittorio Pacchiani. Erano, sono le cose cui ha dedicato tanto di sè ed ha forse loro affidato il desiderio di restare qui per sempre. La sua lezione più alta fu ed è questa. In quanto egli ha più amato, si allungherà, oltre gli anni, l'ombra della sua presenza.

Roberto Barzanti (da Murella Cronache)

Dario Stanghellini. Il cuore antico della Tartuca

dariotondo

Me lo dissero mentre con il fazzoletto giallo-celeste al collo, mi recavo alla cena della "prova generale". Sarà successo a molti altri. Un liquido amaro scese dentro di me immergendomi in un dolore selvaggio e insopportabile. Il "mio" Dario, il "nostro" Dario se ne era andato nell'eterno silenzio mentre appena la sera precedente era alla cena con noi, per il grande piacere di stare insieme, mentre nella stalla il cavallo a dondolo che ci avevano assegnato nella "tratta" mangiava lentamente le carote rischiarato dalla piccola luce accesa sotto Sant'Antonio. Invidiai tutti coloro che al posto del cuore hanno una pompa di plastica ricoperta di ispidi peli di facocero. Infatti non sentono nulla per nessuno. E ce ne sono tanti, più donne che uomini. Poi mi resi conto che non di invidia debbono essere avvolti ma di commiserazione. Perchè non riescono a vedere neppure uno spicchio di sole. La tristezza era calata in Piazza Sant'Agostino e non se ne andò mai. Anzi. Quando parlò Roberto Barzanti, dari ortoPriore, intensificò il senso di vuoto e quando parlò Pierangelo Stanghellini, Capitano, suo figlio, si sentì la fatica che gli costava. Riapparvero le lontane primavere, gli anni che erano trascorsi veloci, i momenti che ci avevano visti insieme, lo scambio dei nostri pareri, la consapevolezza di non poterli più rivivere, di non poter più sciogliere insieme le nostre angustie quasi per liberarsene o alleggerirle un poco. Era stato il più bel "duce" della Tartuca, posto che ereditò da Vero Vagaggini, subito dopo la guerra. Esisteva allora la consuetudine di dare un omaggio ai nuovi protettori il giorno della festa titolare. Venne a Pietro Tamburi, Vicario, l'idea di fare una bella fotografia a mezzo busto al "duce". Galliano ci dette la cesta che si usava in Piazza nel giorno del Palio, proprio per raccogliere le armature pesanti del "duce" e del "fantino" dopo il corteo. Ci mise l'elmo, i bracciali, la cotta in velluto e broccato. Si portò alla Lizza, dal Brogi (fotografo tartuchino), e ne uscì fuori un bel ritratto che io incorniciai, dopo averlo colorito, ed era su un mobile di salotto, appena si entrava nella mia casa dell'orto botanico. Ci stette tanti anni, i più belli della vita. Dario era orgoglioso di aver donato questa sua presenza alla Contrada che tanto amava e per la quale lavorò a cottimo per tanti anni. Quando eravamo ragazzi, ed io rubavo qualche ora del giorno estivo per giocare con i miei amici di Sant'Agostino, Dario era con "quelli grandi" che se ne stavano un po' appartati e non si divertivano più a giocare a calcio, a nascondino, a correre il Palio. Era con Libero Bartalucci, Alberto Giannini della Pantera, Magneto Bianchi, Gerardo Brandani e tanti altri come lui. Se intervenivano nelle nostre cazzottate di pulci, smettevamo subito e ubbidivamo, come era d'uso verso i giovani o, Dio ci guardi, verso le persone di una certa età. Avevamo tredici, quattordici anni e per la prova generale guardavamo mangiare gli altri dall'inferriata di Castelsenio. Poi venne la guerra. In quell'ottobre 1940 noi andavamo al liceo e ad altre scuole e loro partirono soldati. Nel 1945, quando finì tutto, in divisa c'eravamo stati diversi. Chi rientrò presto, chi ritornò più tardi per via della prigionia, qualcuno non ritornò più. Dario era stato prigioniero dei tedeschi, carabiniere ausiliario, vicino a Praga. Me le raccontava spesso quelle sue avventure alcune difficili, altre paurose. In quei momenti cinque o sei anni di più o di meno non significavano più nulla. Si diventò tutti amici e ci si dette del tu. Il "lei" era riservato al Priore, al Vicario, al Capitano, al sor Augusto, a suo figlio Giovanni, a Silvio Gigli. Anche a Galliano, per quanto mi riguarda, anche se subito mi comandò di dargli del tu. Come fece anche Silvio, ma sei anni dopo. Perchè l'aria che respiravamo, il comportamento, la buona educazione, la sensibilità non erano cambiati. Non erano cambiati il rispetto, l'affetto, i principi, la parola data, la puntualità, la generosità, i sentimenti, la bella musica, la cortesia. Quell'anno, dopo tre Palii e la "vittoria morale" (quando si portò via il cavallo per non sottostare ai soprusi del mossiere) organizzammo una cena che doveva sopperire al banchetto annuale, sotto le Logge di Sant'Agostino (dove saremmo tornati per la prova generale nel 1955). Ci demmo tanto da fare. La domenica mattina ci alzammo alle cinque con Galliano che ci guidava, per attorcigliare - come prima cosa - lunghi festoni intorno alle colonne, fatti di foglie di alloro. Poi se ne misero altre orizzontali. In cima alla scala ci saliva con grande maestria Elio Cini e Ivo Giachetti andava nell'altra dirempettaia. Furono messe tante lampadine perché "le logge sono dispersive" diceva Ivo e Galliano gli dava ragione. Il menù fu scritto a macchina, uno a posto. Dario, quando si mise a sedere con Nice lesse e mi chiamò: "Che roba è questa?". Mi indicò l' "insalata russa". "E' prima volta che mi apprestavo a mangiarla. il "menù" era stato fatto dai cucinieri del Tolomei che fecero la cena (pagandola, naturalmente). Avevano pochi convittori perché l'anno scolastico, intelligentemente, si apriva il primo ottobre e quella era l'ultima domenica di settembre. Finita la cena, nel salone del convitto, si aprirono le danze in onore dei "reduci e famiglie". Per questo erano presenti le donne. A un certo punto lasciò il ballo Dario e mi disse abbracciandomi: "Giulio, ti sei dato tanto da fare ma io ti ringrazio a nome di tutti i reduci!". Nessuno mi aveva detto una cosa del genere. Mi rimase stampigliata nel cuore come un tatuaggio. Ci incontravamo spesso da Galliano, a Castelsenio (ne fu anche presidente) e, da quando era in pensione, a Piazza Tolomei, a Piazza Salimbeni, all'angolo di Via delle Terme da dove lui tornava verso casa. Parlava volentieri di Tartuca e del Siena e di Siena. Da trenta anni, forse più, quando tutto era così cambiato e diverso per noi, ci sentivamo più vecchi e si rimpiangeva il passato.

Salvo che i progressi in medicina e farmacia, si sottolineava. Ma allora eravamo immersi nell'umanità, ora nelle macchine. C'era una bella differenza. Fece il Camarlengo con precisione, che era in lui tipica, il Vicario generale. "Se proprio non c'è nessuno meglio di me o che non lo vuol fare" ci disse. Hanno tutti imparato qualcosa di estremamente importante da Dario. Di un'epoca nella quale ci sentivamo felici di ricevere una cartolina da S.Quirico d'Orcia o da Firenze. Si ringraziava mille volte il mittente. Ora é bene non scriverle perché coloro che le ricevono si sentono umiliati da quel tenero pensiero che loro non hanno. Oppure sbruffano perché dovrebbero rispondere e fanno tanta fatica. Oggi non si saluta più, non si ringrazia più, non si simpatizza più. Si paga le tasse a un governo ladro, ci si rivolge all'ospedale che paga venti milioni al mese i "segretari generali", si spendono stravolgenti cifre in farmacia, si entra nei negozi dove le commesse si alzano in piedi sbuffando, si vive sempre più in solitudine perché gli amici muoiono ma anche gli altri non ti vogliono. Si parlava anche di queste "consolazioni" con Dario. Era uno sfogo necessario. Ora tutti quelli che gli volevano bene non lo vedranno più. Ma che abbiamo nella Tartuca che tante care e importanti persone muoiono in giorni di Palio? Il 27 giugno 1957 morì il Priore Giuseppe Mazzini. Il 12 agosto 1968 morì il Priore Ottaviano Neri. Il giorno del Palio d'agosto del 1995 morì quello che era stato uno dei più grandi Priori, Giovanni Ciotti. Alla vigilia del Palio Straordinario di quest'anno se ne è andato Dario. Il destino ci ha voluto togliere il sorriso, come fosse una perfida donna. Addio, Dario. Inizierà anche il nostro sonno. Come è scritto e come è giusto.

Giulio Pepi

Nella foto in alto scattata all'Orto Botanico nei primi anni '50 Dario Stanghellini si riconosce al centro tra Pietro Tamburi e Galliano Gigli.

Le tre patrie di Tartarugo

battatondo

Ugo Bartalini è morto quando aveva per poco vinto la sua scommessa con il tempo.Aveva oltrepassato lo scorso 7 aprile la soglia dei 101 anni : dunque ha camminato per qualche mese nell'ultimo tratto del millennio e per una risicata manciata di giorni ha toccato il nuovo secolo. Proprio come si era prefisso di fare.Scherzando sulla sua longevità qualcuno aveva detto che l'Ingegnere - così semplicemente lo chiamavano nella sua Contrada, la Tartuca - era una sorta di vivente prodigio biologico. E' stato vitale e sorridente fino all'ultimo e fino all'ultimo attaccato ai piaceri semplici e veri.Ha vissuto davvero toccando tre secoli .

Ugo Bartalini nacque , infatti, nel 1899, anno fatale per tanti giovani che furono chiamati alle armi il 15 febbraio 1917 mentre infuriava la Grande Guerra.Rammentando quei giorni in una sobria memoria personale Bartalini ha tratteggiato la convulsione di una scelta difficile. Era studente del primo anno di Ingegneria a Roma quando da un ardente interventismo democratico fu trascinato al fronte,dove si fece davvero onore nel 33° reggimento artiglieria campagna e fu anche decorato con medaglia di bronzo al valor militare.Ma le pose da eroe non gli sono mai piaciute e quando raccontava le avventure militari lo faceva con il distacco di chi parla di una scampagnata non priva di divertimenti.Il 29 febbraio 1920 fu collocato in congendo illimitato.Nel suo quaderno lo riferisce come si trattasse di un normale voltar pagina: "Tornai alle economie.La Trattoria degli studenti,un'unica stanza,cucina e mensa,in via Urbana,una traversa di via Merulana,ci riuniva per pranzo e cena al superbo costo di lire due a pasto,ivi compreso il fumo della cucina,incosciente responsabile del lacrimare dei nostri occhi".

Tre secoli

Ugo si laureò a Roma nel '22. In quel drammatico dopoguerra si affrontò un vuoto angosciante. Il vecchio ceto dirigente liberale aveva fatto fallimento. Tra socialisti e popolari lo scontro fu totale. La becera eversione fascista portò al governo Mussolini. La violenza era all'ordine del giorno e la provincia ne era sconvolta. Bartalini si rifugiò nella professione, nello studio di un uomo che godeva di fama e considerazione: l'ingegner Guido Sarrocchi. Conseguì quindi l'incarico di direzione di alcuni uffici tecnici di comuni del circondario senese, da Chiusdino a Monticiano, da Radicondoli a Sovicille. Chi ha militato con lui nel Partito Socialista rammenta i suoi interventi brevi e infarciti di cifre, le dichiarazioni puntuali che elencavano le cose da fare: fogne, acquedotti, allacciature per l'acqua, ponti, strade. La geografia che egli amava non era una sequenza d'idee. Aveva appreso dal riformismo municipale di stampo ottocentesco una lezione alla quale sarebbe sempre restato fedele. Una sera Silvio Gigli lo chiamò a dire due parole mentre trasmetteva dal Campo il suo "Spettacolo in piazza": Bartalini si impappinò e non riuscì neppure a leggere i foglietti che si era preparato. Colpa dei riflettori. Ugo Bartalini partecipava alla popolarissima trasmissione radiofonica nella sua qualità di sindaco: carica che ricoprì dal maggio 1956 al novembre 1964. Furono anni ricchi di fondamentali realizzazioni. Mi è capitato di ripensarli quando ho dovuto abbozzare una panoramica del secondo dopoguerra a Siena, tenendo d'occhio soprattutto l'amministrazione comunale. Furono realizzati i consolidamenti delle scuole di Presciano, Cerchiaia e Ginestreto. Furono costruiti gli edifici scolastici di Fogliano e Pieve al Bozzone.

Acqua, per piacere

Ci si dedicò anima e corpo alla costruzione del nuovo acquedotto, per superare una penuria d'acqua che tormentava da decenni la città. Furono anni nei quali la sinistra si guadagnò la reputazione di forza attenta alle esigenze della popolazione e capace di governare la città. Si trattava di rimettere in moto la macchina bloccata dalla guerra, di dare corpo a una credibile autonomia comunale. La riforma della finanza locale era uno dei cavalli di battaglia di lotte, delle quali s'è quasi perso la memoria e che furono essenziali per quel legame di fiducia tra cittadini e amministrazione che sta alla base di tanti risultati. E un nuovo ceto dirigente venne fuori. Bartalini impersonava bene i tratti del galantuomo socialista e favorì un felice e fruttuoso incontro sui programmi.Fu eletto sindaco nel 1956 e si distinse per una vocazione molto empirica,per un sano attaccamento alle cose da progettare e da realizzare.Il piano regolatore di Piccinato,Bottoni e Luchini era già stato approvato , la battaglia fondamentale che ha salvato Siena era stata vinta, malgrado le torbide manovre e la strumentalizzazione spregiudicata delle Contrade che si pronuciarono per la edificazione nelle valli verdi entro le mura.Oggi nessuno

riprorrebbe una scelta tanto sciagurata, ma allora lo scontro fu durissimo e la sinistra si conquistò un merito storico,che oggi nessuno più riesce a contestare.Bartalini si trovò a gestire la fase molto contrastata compresa tra l'approvazione del piano da parte del Comsiglio comunale e la sua definitiva pubblicazione ufficiale,che avvenne nel 1959.Purtroppo fu una fase non esente da guasti, anche gravi , in parte resi possibili dalla mancanza dello strumento approvato ,in parte accettati per una tolleranza distratta e non ancora armata del necessario rigore.

Nel 1964 avrebbe ceduto la fascia tricolore a Fazio Fabbrini, un sindaco che si fece subito apprezzare per il suo coraggio e la sua volontà di guardare con lungimiranza il futuro di Siena: basterebbe citare la chiusura del centro antico al traffico veicolare per chiarire quanto del nostro presente dipenda dai difficili successi di quei decenni cruciali. Ora non è di moda dare a ciascuno i riconoscimenti ai quali ha diritto, ma chi analizzi quanto è accaduto non potrà far a meno di tracciare un bilancio equilibrato. E verificare quanto prezioso sia stato un impegno collegiale, di massa. Bartalini non si considerò mai un protagonista, ma un cittadino incaricato di far funzionare al meglio e con buonsenso un'amministrazione. E così fece da vicepresidente del Monte dei Paschi, dal 1964 al 1969.Ripensato a distanza il suo socialismo appare basato su un laico gradualismo riformista.Fu per lui naturale restar fedele alla linea dell'unità delle sinistre.Anche quando si dette vita a Unione Popolare,per riconquistare il Comune alla democrazia e alla sinistra,non esitò a stilare una dichiarazione di sostegno, mettendosi in contrasto con lo spregiudicato e miope autonomismo del PSI di allora.

Insieme a questo curriculum istituzionale e politico , Ugo Bartalini ha percorso un appassionato cursus honorum contradaiolo, nella sua Tartuca. Lo studio di Guido Sarrocchi deve essere stato per lui non soltanto una palestra professionale di prestigio. Fu anche scuola di attaccamento ai colori della sua Contrada, della quale Sarrocchi fu Priore. Anche Ugo più tardi sarebbe stato a capo del rione di Castelvecchio e si sarebbe distinto in modo tutto particolare nelle faccende di Palio.

L'uomo di Palio

Era una festa meno fragorosa e complicata di quella di oggi. Bartalini era tenente, con Augusto Mazzini, nell'estate del 1933, quando la Tartuca con la fortissima accoppiata di Ganascia e Folco, conquistò un memorabile cappotto. Si fa per dire tenente, perché il capitano di allora, l'imperturbabile Pino Rugani, restò a Forte dei Marmi e Ugo dovette impostare la tattica della carriera e provvedere alle incombenze del caso.

Basterebbe un episodio del genere per far capire quanto sia distante il palio d'oggi, con il suo mastodontico apparato veterinario-mediatico-amministrativo dal palio di allora, più leggero e riservato. Ugo ha sempre ricordato con le lacrime agli occhi l'incontro eccezionale che avvenne il 17 agosto in via di Città quando, all'altezza del palazzo Chigi-Saracini,, si incontrarono il drappellone d'agosto che veniva portato in Tartuca e quello del 2 luglio che contradaioli esultanti recavano incontro. Ma per Ugo la dimensione Contrada non è andata disgiunta dall'amore civico: il premio, destinato ad un giovane contradaiolo che si sia fatto apprezzare negli studi o per il lavoro, testimonia una generosità paterna ed autentica, mascherata da uno stile burbero. Ugo Bartalini ha avuto una scorza dura, si è sempre vantato di costumi schietti,di modi sbrigativi: ha amato più i numeri che le parole.

Quando gli fu consegnato,nel 1992, un Mangia d'argento Bartalini ne fu felice, ma non si scompose. Il segreto della sua lunga vita sta tutta nella capacità di sdrammatizzare,nella voglia di ricondurre i fatti alla loro minuzia quotidiana. Così, senza enfasi, divertendosi e assecondando con gusto curiosità,imprese e affetti, ha attraversato per intero il Novecento, fedele a tre patrie:l'Italia del fervore giovanile,Siena e la sua Contrada.

Mauro Barni (da Murella Cronache)

Fiera e dolce, addio Anna

annatonda

ll 16 agosto 2001 abbiamo salutato Anna Carlucci, la nostra custode. Quale disegno possa predisporre un addio così duramente vissuto nelle ore in cui si celebra la Festa del Palio non è dato saperlo. L’Oratorio è gremito di contradaioli, di amici e parenti, ognuno rapito dalla fissità del proprio dolore in una deriva di sentimenti: stupore e sofferenza da una parte, attesa di un evento intriso di gioia e speranza dall’altra.
Come non pensare che di lì a poco, dove adesso il corpo di Anna, spento dalle mille tribolazioni di una feroce malattia, riposa coperto dalla bandiera gialla e turchina, Don Floriano avrebbe benedetto i protagonisti di una guerra giocosa e antica? In silenzio e storditi da tanti e contrastanti pensieri non era facile lasciarsi cullare, come sempre accade in questi dolorosi momenti, al dolce ricordo della persona tanto amata e adesso perduta.
Anna era sanguigna, vera, passionale, autentica. Stirpe Carlucci per intendersi. Quale sollievo, passato il timore di leggere il manifesto funebre appena attaccato in fondo alla strada, vedervi scomparire l’anonima frase – tanto anonima da suonare offensiva – “appassionata contradaiola”. Esiste un deliberato dell’Assemblea che impone questa disgraziata dicitura a tutti i contradaioli, ma finalmente è stato chiaro che la Contrada è una famiglia e non un’azienda. Siamo tutti uguali è vero, ma a qualcuno vogliamo più bene perché più bene ha voluto alla Contrada ed ognuno di noi vive una vita diversa dalle altre.
Impeto, dolcezza e fervore: Anna era anche questo e poi ancora dedizione, amore verso le cose della Contrada, verso le persone che amava. La sua voce ha risuonato per lungo tempo in Tommaso Pendola, quasi ne facesse parte come la fontanina o l’Oratorio. E di quante impazienti urla di richiamo, di sincero rimprovero, è popolata la nostra mente!
Anna faceva una cena, e la lista dei prenotati subiva una improvvisa impennata. In cucina riusciva ad esaltare le voglie più goderecce dei tartuchini. Cene del venerdi e settimane gastronomiche: la sua opera proseguiva dai locali dell’economato a quelli della cucina.
Non era una donna facile da domare. Ha incarnato l’autenticità spirituale della donna senese, fiera e dolce, combattiva e amabile.
Non sarà facile dimenticarla, sovrapporre allo sgomento della sua scomparsa l’ordinario sfilare dei giorni ed il velo del tempo.

Giovanni Gigli

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