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"La S.V. è vivamente pregata di volere intervenire alla costituzione ufficiale della Compagnia di Sant'Agata che avrà luogo alle ore 21,30 di mercoledì 8 aprile p.v. nei locali della Società di Castelsenio (g.c.). Saranno presenti i Dirigenti della Contrada, della Compagnia di Porta all'Arco e della Società di Castelsenio. Distinti saluti. L'ABBATESSA f.o Pia Bartalini".

Con questo invito, tanto semplice e quasi burocratico da apparire ingenuo, che recava la data del 28 marzo 1953, si annunciava la fondazione di un organismo destinato a compiere tante belle cose per la Tartuca e a divenire indispensabile. Fino a quel momento i verbali dl secoli erano rimasti evasivi, anzi, addirittura muti per quanto riguardava qualsiasi attività delle donne, specialmente se organizzata. A volte si parlava di "lasciti per la nostra chiesa", di "doti per fanciulle povere", di opere assistenziali o comunque legate alla devozione a S. Antonio che recavano l'espressione di una volontà o la dedica femminile. Irretite nei nostri ricordi, o in quelle dei babbi e dei nonni, erano rare iniziative, per lo più frutto di personali slanci che facevano seguito a proposte di qualche anonimo gruppo di signore o a consigli di qualche "dirigente" della Contrada che si rivolgeva sempre alle poche donne disponibili, libere dalle oppressive catene di tradizioni familiari (e maritali) che le confinavano dietro le finestre o, al massimo, alle funzioni e alle Messe o (massimo più del massimo) al veglione dell'ultimo lunedì di car­nevale: che era una conquista da pochissimo tempo ottenuta. E quelle, "libere" lo erano per modo di dire: più che altro per fierezza di carattere, per temperamento estroverso e per una passione contradaiola incandescente, come solo le donne sanno dare, quando non appartengono all'aristocratico sprezzo, non covano la grinta proterva, fanno a meno del sussiego e non seguono coloro che sono avare persino di uno sguardo.

Fino a quel momento ave­vo conosciuto solo Dina, la mamma e la sorella di Boggione, Agostina Turillazzi, le mamme di Gerardo, del Fornacelli, la sor'Emma e poche altre. Per la festa titolare, per le spese del Palio (se bene fosse andato), per qualsiasi altra manifestazione, erano loro e soltanto loro a muoversi: collette, rammendi, una mano al buffet nei giorni segnati dal destino (per questo scendeva da Castel Vecchio anche Caterina Stortini e si portava dietro Elena e la Zani). Solo dopo la vittoria del 1951 le acque si erano mosse rapidamente. Diciotto anni di digiuno sono tanti per chiunque, figurarsi per coloro che non sono abituati all'astinenza. Alle cene allestite da Piero e da Torquato (i trattori) avevano timidamente fatto seguito le cene preparate in casa. Le anime, o il nocciolo se più piace, aveva sette teste: Dina, la sora Pia Bartalini che aveva l'hobby dell'organizzazione precisa e, un po', anche della gerarchia (la quale perchè tutto ruoti con perfezione ci sta sempre bene), Emma Civai, Eugenia Bernardoni, Agostina Sacchi, Lida Barbucci, Caterina Stortini, Elina Pucci. Si trattava di "merende", come diceva Eugenia. "Non vi aspettate i cenoni". Ma non era vero. Ci presero la mano e non c'era "toc" di cuoco che reggesse il confronto. Furono bravissime. Non c'era stata Contrada, fino a quel momento, che avesse potuto organizzare una cena al mese (e anche due) con i propri mezzi per quasi due anni di filato.

sagata011Mi riferisco alla data fatidica dell'Aprile 1953, naturalmente, perchè quello che venne dopo fa parte della storia "ufficiale" della Compagnia. Ne erano tutti entusiasti. I mariti per un conto (molti facevano parte della "Commissione permanente" addetta agli altrettanto permanenti festeggiamenti di Porta all'Arco; uno di loro, il Cav. Duilio Bartalini, fu poi creato "fiduciario di Sant'Agata", uomo attempato e geniale; Pasquale Piccioli ogni tanto metteva la testa in "dispensa" - perchè la cucina non esisteva - e ammiccava con gli occhietti socchiusi di faina e con un sorriso di divertito conforto), gli altri per un altro. Il Dott. Mazzini era l'immagine della umana felicità. Mario Neri, che con le donne si confondeva sempre volentieri (tanto che qualche anno dopo frusciò il posto di "Fiduciario"), era oggetto di bonarie ironie. Remigio Rugani era semplicemente alle stelle: "Signora Abbatessa" aveva battezzato la sora Pia e la salutava con grandi inchini,- abbracciando le altre e baciando Dina, portandosela al petto come una bambina, mentre lei gli accarezzava la liscia testa di rinascimentale condottiero. "Siete delle fate", soggiungeva, con le romantiche frasi che gli si addi­cevano. E "fate" furono chiamate per diverso tempo.

La Compagnia, già quella sera di poetica letizia del rito, aveva superato le venti iscritte. Fu nominato il "consiglio". Erano undici. Non c'era chi comandava (perchè gli uomini a questo non avevano rinunciato: sia attraverso il "fiduciario" sia attraverso la "commissione") ed erano tutte su piede di parità ma con compiti diversi. Pia Bartalini era un po' la coordinatrice. Dina, la "camarlenga". Agostina Sacchi, l'"economa" e le altre, collaboratrici in servizio continuativo: Eugenia Bernardoni, Rosetta Mantovani, Lida Barbucci, Amelia Neri, Emma Civai, Caterina Stortini, Leda Cerpi e Ginetta Perinti (dopo si aggiunse anche la Poli, una moret­tina graziosa che stava vicino a Porta Tufi e suo marito che dava una mano - anzi, una manona, perchè le aveva grosse - lavorava all'Opera del Duomo; più tardi anche la Biglieri e la sorella di Ciro Gaggiani che non si risparmiarono). Quasi a corona tutte le altre che non mancavano agli appuntamenti: dalla splendida Nunziatina, alla sig.ra Corinna, da Maria Bielli alla mamma di Galliano, da Maria Tamburi, alla sig.ra Neri (non posso scrivere ancora nomi perchè rischio di compilare un lungo elenco telefonico). Ronzanti, ma con compiti lievi e di poetica ispirazione, le figlie e le nipoti (fra di loro non posso fare a meno di ricordarne alcune: Cice, Amarica, le figlie di Piero Berti, Liliana, Giovanna, Carla e Aura allora davvero cittine).

La sera di quell'8 aprile, il germoglio era posto a dimora. Con la solita magnificenza Beppe Mazzini offrì paste e vinsanto. Da una finestra che dava nel chiasso usciva un fresco canto di donne che, per la Tartuca, avevano lasciato ancora una volta l'intimo riflesso dei domestici paralumi. I meravigliosi esperimenti erano finiti. Ora si cominciava sul serio. E tutte erano convinte di adempiere un compito di enorme importanza: e lo era. Parlò Ottaviano, parlò Remigio. Giuseppe Mazzini rifiutò per l'emozione. Parlò Mauro Barni e tutti lo ascoltammo approvando il suo ottimismo. Una di quelle notti che, all'insaputa del mondo, il destino fa un passo e gli uomini, rincasando, non sentono il peso della vita. Dopotutto era primavera, erano arrivate le prime rondini e all'orto botanico avevo visto i corvi volare con rametti nel becco per costruire il nido. In quell'istante anche io sentii che qualcosa mi toccava il cuore: e non voglio aggiungere altro per non rischiare autobiografie di cui gli altri altamente s'infischiano.

Dina, che aveva la spiacevole abitudine di dire sempre ciò che pensava, propose come primo atto una bella cena dedicata esclusivamente alle donne che fino allora avevano fatto mangiare e mai avevano mangiato: approvata con applausi. Fu il 14 maggio e in quell'occasione furono battezzati con l'acqua della fontanina il Dott. Leo Mati, allora Rettore del Convitto Tolomei, e quattro americani: Lester Polakov con la sua deliziosa Mary (che poi fece la copertina del "numero unico", e fu e resta una delle migliori), Ray­mond Whitlock, un pastore protestante, con la prolifica moglie Lois Stanton.
Il 2 giugno, festa della Repubblica, venne effettuato il "giro ai Tufi" (sempre "prima" e non "dopo" quello ufficiale). Le donne prepararono la prima meren­dona e intervennero in massa: con i grembiulini giallo-azzurri che si erano cucite, quasi a simboleggiare la fedeltà al lavoro insieme a quella alla Contrada.
Il 14 giugno la santificazione del "national-day". Alla fontanina, prima dei bambini, il correttore don Masi benedì il vessillo - di seta, nuovo fiammante - che le donne di Sant'Agata avevano voluto e fatto. Una ceri­monia di dolce e fortunato presa­gio. Ci sentivamo tutti giovani, anche quelli che ne contavano settanta, e immaginavamo i giorni avvenire, il sole, l'amore, la vittoria del Palio (che puntual­mente si realizzò) e un mondo tutto felice. Dina era la vessillifera, sempre vispa e ridanciana.

Oggi sono passati trent'anni (l'articolo di Giulio Pepi è del 1983, ndr) e, per noi, la lontananza si gonfia con la potenza di un rimorso di ciò che potevamo fare e non abbiamo fatto. Ogni pietra, ogni finestra, ogni bottega, ogni volto che appare dietro le chiuse palpebre, significano un ricordo. Meglio non soffermarsi alla "moviola" ma continuare nel documentario. Quando rientrò la comparsa, eravamo tutti dietro, comprese le donne con la loro bandiera. Avevano cucinato tutto il pomeriggio, avevano lasciato una pattuglia di guardia ai fornelli posticci, ed erano arrivate trafelate in Piazza Indipendenza (punto di incontro per la sfila­ta).
La sera della "prova generale" costituì per la Compagnia un esame di grosse proporzioni. Lo vollero affrontare e lo superarono di un salto. Per la prima volta una Contrada faceva la cena con le persone di casa, raccattando a destra e a manca posate, biancheria e piatti. Riuscì benissimo. Silvio Gigli era venuto con tre o quattro amici della radio e aveva portato anche Isa Bellini, una cantante di gran voga, che quando vide Albano esclamò: "tardone ma bono". Dissero che neppure da Carletto in Tra­stevere avevano mangiato così. Fu un complimento, ma non fu regalato.

sagatastoria1Tra luglio e agosto, Sant'Agata si fece il corredo. Tovaglie, tovaglioli, piatti, posate, bicchieri: tutto. Un corredo per trecento posti che andò via via aumentando. Lavoravano e mettevano da parte: una volta ogni tanto, il guadagno della cena era per Sant'Agata. Cioè per un settore vivo, importante e straordinario della Contrada. Non si fermavano alle cene. Organizzavano molte altre considerevoli iniziative. Nel settembre di quell'anno ci fu un parto trigemino. Tre sorelline in casa di Virginia Casini e Roberto Rossetti. A quei tempi era una rarità. Le spose non erano avvezze a far sei o sette figlioli come ora. Ne parlarono tutti i giornali. Il padre era felice ma si grattava la testa. Il triplo corredino fu regalato con l'opera delle Donne di Sant'Agata.

E incominciò così la loro attività sociale, di "fatebenesorelle ". Non c'era un segno di felicità o una situazione angosciosa dove non fossero presenti. Le loro mani erano sorprendentemente lunghe e delicate. Portavano sorriso e conforto, sostegno e impegno. Sottoscrizioni per bandiere, partecipazioni a battesimi, matrimoni, nozze d'argento e d'oro, malattie, disgrazie. Parteci­pazione a tutte le feste laiche o religiose, cera e tovagliati per la chiesa, paramenti sacri, processioni. E intanto questa bella nube giallo-azzurra dilagava nel cielo e l'elenco si allungava di altri nomi. Fecero i distintivi di Porta all'Arco in stoffa, indossa­rono vestagliette azzurre bordate di giallo. Non ricordo come e da chi, ma riuscirono perfino a con­fezionare stupendi scialli giallo- -azzurri che tutte indossavano d'inverno e che davano in omaggio alle importanti ospiti delle cene.

Il 5 febbraio divenne la festa ufficiale. Sant'Agata veniva ricordata con una Messa nell'Ora­torio (e la prima la disse proprio Padre Ivo Baldi che venne apposi­tamente da Arezzo). Poi alla sera, cenone da "Nello" nel Porrione, ristoratore tartuchino. Il loro esempio fu così splendido e contagioso che quando, sei anni dopo, si realizzò il gemellaggio fra la Tartuca e Tren­to, in quella città si costituì il "gruppo delle donne trentine di Sant'Agata".
Eravamo tutti commossi di questa attività, ma più che altro della dolcezza, della maniera, della delicatezza con la quale compivano ogni loro atto. Quasi in punta di piedi, quasi chiedendo scusa. Allora, in una ventina, senza formalizzare nulla, decidemmo di inviare alle "fate" ad ogni 5 febbraio, un mazzolino di cinque garofani bianchi e rossi con un fiocco della Tartuca. Piccolo, povero dono. Ma era come se quei fiori fossero sbocciati dentro l'anima nostra e volevano dire che nel mondo c'è qualche altra cosa che sta fuori della realtà, alla quale bisogna affidarsi per non morire.

Giulio Pepi
da "Giulio Pepi ricordi", Murella Cronache n.5, maggio 1983

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