Lorenzo, il Mangino di Castelvecchio

La vita di Lorenzo Cerri Vestri si apre e si chiude al n.26 di via Castelvecchio. Nel cuore del rione tartuchino ha trascorso quasi ininterrottamente la propria esistenza, in una rara combinazione di giocosa ingenuità infantile e adulta determinazione.
Anche lui era uno dei ragazzi iscritti alla locale "Università di Sant'Agostino", un'adolescenza trascorsa in armonia tra la frequentazione della Parrocchia, gli studi di ragioneria al Bandini e, naturalmente, la società Castelsenio nelle Murella. La sua passione per i cavalli e per il Palio era chiara fin dall'inizio. Mauro Bernardoni eletto capitano della Tartuca nel 1976 lo volle nella stalla per fare il vice a Riccardo Poppi, il grande barbaresco scomparso pochi mesi fa. Non ancora diciottenne Lorenzo entra nel suo mondo speciale, quello dei sogni della sua infanzia ovvero il Palio dei segreti, dei patti, delle amicizie, del rapporto con i fantini, dell'esaltazione della vittoria e dell'amarezza della sconfitta. Ma per Lorenzo è solo l'inizio di una intensa carriera contradaiola contraddistinta da una dedizione totale in tutti i settori della Contrada: un caso forse unico nella storia della Tartuca.
Gli anni '80 infatti sono caratterizzati dal suo impegno in Contrada (cancelliere e delegato di segreteria) ed in Società (è vice presidente in occasione del centenario di Castelsenio). Nello stesso tempo coltiva con Sergio Marcocci la passione tutta senese del "cavallaio", ed entra nell'ambiente di Pian delle Fornaci con il suo particolare stile educato e socievole allacciando preziosi rapporti con fantini e dirigenti di Contrada. In questa ottica, Bayardo, il forte mezzosangue vincitore nel 1984 nell'Oca con Aceto, è stato il suo amore più grande, pari solo al suo grande sogno di sposare l'amatissima Monica. E' un predestinato, "studia da mangino" si dice in questi casi. E nel 1991 avviene il grande salto. Luca Lombardini lo vuole con sé e lo nomina mangino. E' il giusto riconoscimento di una persona che conosce a fondo le proprie possibiltà, le proprie doti ed i propri limiti. Con Uberto e Cianchino torna il Palio in Castelvecchio dopo quasi vent'anni, Lorenzo è uno dei protagonisti di questa vittoria e lo sarà anche tre anni dopo instaurando un particolare rapporto di stima e amicizia con Dario Colagè detto il Bufera, sempre però nell'ambito del rapporto con la Contrada. Tra le molte virtù in cui eccelleva Lorenzo e che lo facevavo ben volere da parte di tutto il mondo contradaiolo, forse quella che maggiormente impressiona è stata la sua estrema correttezza e serietà, quel suo distinguere tra la vita privata, le passioni personali e gli interessi della Contrada. "Mangino plurivittorioso" amava proclamarsi con un misto di ironia e orgoglio nelle discussione con gli amici. Lorenzo era amato anche per il suo senso dell'umorismo intelligenete e misurato che usava anche con se stesso.
All'indomani della purga dell'agosto 1999 si aggiunse infatti anche la poco ambita nomina di "Mangino mono-ripurgato". Di lui si legge nel Numero Unico tartuchino del 1994: "Si intrufuola in mezzo a borghi e rioni di paesi sperduti dalle Langhe alla Val di Chiana; ascolta, esamina, consiglia, avvicina fantini, proprietari di cavalli, scudieri. Si aggiorna con puntiglio su tutte le novità del mondo ippico, senza trascurare niente, scambia informazioni, si infila in pericolosi giochi di spionaggio e doppiogiochismo, fa finta di non capire per capirne di più, saluta e fa le feste a tutti."
Si chiude il ciclo paliesco ma Lorenzo non è certo il tipo che si tira indietro quando la Contrada lo chiama. Nel 2002, in occasione della vittoria tartuchina, è Vicario ispettore con il Priore Giordano Barbarulli e nel 2006, quando la malattia con la quale ha lottato per quasi dieci anni lo ha già segnato nel fisico, Alessandro Notari lo vuole accanto a sé come Vicario generale dopo che era stato cassiere di Castelsenio. Infine nelle ultime elezioni del Seggio lo troviamo presente nella Commissione di Protettorato. Conosceva la Contrada in ogni suo piccolo ingranaggio ma soprattutto sapeva come parlare con uomini donne e ragazzi con la diplomazia e la disposizione d'animo di una persona pacifica e sensibile. Nessuno può avere di Lorenzo Cerri Vestri il ricordo di una immagine che lo veda protagonista di uno scontro verbale e, meno che mai, fisico. Nel rapporto con gli altri, metteva in gioco la pazienza e l'ironia, l'arte di un eloquio conviviale, la capacità di trovare sempre la parola giusta, assecondando in silenzio il proprio interlocutore. Rimarrà forte, indelebile, nelle persone che hanno avuto la fortuna di conoscerlo da vicino, e sono molte in tutta Siena, la sua gioia di vivere e di godere delle piccole cose di tutti i giorni. La sua voglia di stare insieme, di andare a cena con la scusa di parlare della Tartuca e dei massimi sistemi che regolano i segreti della nostra Festa. Lorenzo ha saputo apprezzare ed esaltare quello che la sua breve ed intensa vita gli ha offerto, in una visione, per nulla rivolta alla materialità dei rapporti ma coltivando l'amicizia ed il perdono, traendo forza da una fede che, attraversando le vicende contradaiole e quelle del suo ultimo doloroso percorso, non aveva mai perso.

Giovanni Gigli (tratto dal Corriere di Siena)

Foto: in alto Lorenzo durante la Cena del Piatto del 2003; al centro, durante il Banchetto Annuale del 2002 e sopra, nei giorni del Palio del 16 agosto 2006.

Remigio Rugani, il generoso ribelle

Conoscevamo Remigio Rugani, spavaldo capitano tartuchino, (dal 1926 al 1928 e dal 1949 al 1959) come protagonista dalle vicende paliesche lungo un periodo di almeno 30 anni. Due palii vinti, qualche sonora purga, regista dietro le quinte anche del Palio del 1930 e del cappotto, sebbene formalmente il capitano per gli annali risulti suo fratello Pino, il quale però preferiva di gran lunga giocare a carte sotto il sole di Forte dei Marmi rispetto alla calura di Piazza del Campo. Per gli affari di Palio ci pensavano Augusto Mazzini, Ugo Bartalini e Remigio. Ma esiste un aspetto importante della vita di Remigio di cui pochissime persone ne erano a conoscenza. Ma andiamo per ordine. Medico otorinolaringoiatra stimatissimo in tutta Siena, fondatore della clinica che porta il suo nome, Remigio nasce a Siena, in via delle Cerchia, il 26 ottobre 1898. Suo padre Amerigo è un medico, contradaiolo della Lupa, sua madre è Sofia Bartalini, sorella di Scipione capitano tartuchino vittorioso nel Palio del 1902 (la famiglia Rugani-Bartalini infatti ha vinto sei drappelloni, le cui aste furono donate da Giovanni Rugani alla Tartuca). Quattro sono i fratelli di Remigio: Jacopo (Pino), Riccardo, Gabriella e Lucia. Dalla moglie Laura Benvenuti, figlia del mossiere Venturino (Giuseppe) Benvenuti, avrà tre figli: Fabio, Donata e Giovanni.

Carattere ribelle ed esuberante, Remigio aderisce con l’entusiasmo del ventenne al nascente partito fascista senese fino a diventarne il segretario politico. Ben presto però (1924), non accettando la svolta clerico-borghese imposta da Mussolini per facilitarsi l’ascesa al potere, fu isolato ed estromesso dal partito. E’ in questo periodo (1926-1927) che Remigio, evidentemente deluso dall’impegno politico, accetta, sebbene sia giovanissimo, la carica di Capitano della Tartuca. Al termine della breve esperienza dirigenziale contradaiola lascia Siena per trascorre gli anni di studio della specializzazione medica a Milano. Di ritorno nella città natale - ormai non si interessa più di politica attiva - nei primi anni del 1930 fonda, come si è detto, una clinica medica privata in Piazza della Posta nel palazzo di proprietà della famiglia della moglie Laura.
Arriviamo così ai drammatici anni della guerra. Il 10 giugno 1940 Mussolini decide di entrare in guerra al fianco di Hitler e nel 1941, l’Italia partecipa alla sciaugurata campagna di Russia. Remigio, in qualità di medico, fu richiamato alle armi (aveva partecipato anche alla prima guerra mondiale). Rifiutò, valutandola troppo “comoda”, la destinazione iniziale di Montecatini, e chiese di essere inviato direttamente in prima linea. Fu accontentato. Così partì al seguito del Corpo di Spedizione Italiano in Russia (CSIR) che, insieme alla famosa ARMIR, componeva le formazioni italiane nelle strategie dell’invasione voluta da Hitler. Fu assegnato al convalescenziario di Dnepropetrovsk, cittadina ucraina situata sulla linea del fronte del fiume Dniepr, luogo di drammatici scontri. E’ in questo contesto di guerra, miseria e morte che lo spirito umanitario di Remigio prende il sopravvento sui dettami malvagi e criminali di una ideologia che aveva dichiarato lo sterminio di tutti coloro che appartenevano alla religione ebraica. E’ il novembre del 1943, alla vigilia della ritirata italiana. Nei dintorni dell’ospedale da giorni i soldati vedono aggirarsi un bambino di dieci anni che rovista nei rifiuti per mangiare. Avvertono subito l’unica persona che è in grado di poter gestire al meglio la situazione, ovvero il capitano Remigio Rugani.
Isaia Saizev (foto a sinistra) è il nome di questo bambino di dieci anni, al quale i nazisti hanno ucciso i genitori, due fratelli e una sorella. Lui era riuscito a fuggire in tempo sgattaloiando fuori dalla casa con in mano una cornice con la foto della famiglia appena sterminata. Si era rifugiato da altri parenti ma la brutale rappresaglia tedesca era arrivata anche in quella casa, fucilando senza pietà la zia e due cugine. Dio, o il destino, per chi non crede, gli fece incontrare il suo salvatore nelle vesti di un capitano dell’Esercito italiano. Remigio lo vide, gli mise un cappottone militare addosso, lo fece mangiare e gli disse: “Tu starai sempre con me”.
Il treno militare sarebbe partito di lì a pochi giorni. Isaia era piccolo di statura e fu facile nasconderlo in una cassa. Il convoglio, nei giorni successivi, fece una sosta a Kolomiya in Polonia e Remigio fu ospite di una colta famiglia borghese del posto, la cui casa era un solidale cenacolo di amici caduti in disgrazia per via della guerra. Una ex possidente polacca che adesso faceva l’infermiera per conto dei tedeschi, gli segnalò il pietoso caso di un giovane dottore ebreo che il giorno dopo sarebbe finito nella lista della morte, essendo rimasto l’unico superstite ebreo di un ospedale ormai in fase di abbandono. Remigio non ci pensò sopra neanche una notte. La stessa sera sul tardi, di nascosto, accompagnato da amici fidati, entro nel ghetto ebraico della cittadina e travestendolo da soldato italiano “prelevò” uno sbigottito dottore Sigfrid Haber. Un anno dopo, esattamente il 3 settembre 1944, (Siena era stata liberata il 3 luglio) sarà lo stesso Haber a fornirci la descrizione di quell’episodio in una memoria scritta che invierà all’ambasciata polacca:

“..sono restato solo al mondo a causa della malvagità tedesca! Dalla Gestapo sono stati vigliaccamente fucilati senza alcun particolare motivo, la madre, sua sorella con due nipoti e alti due parenti stretti; anch’io avrei avuto la stessa sorte se un Capitano medico italiano il dottor Remigio Rugani di Siena, che di passaggio a Kolomiya, durante una sosta nel viaggio di ritorno dalla Russia non avesse avuto pietà del mio difficilissimo stato (essendo già nella lista della Gestapo) e a suo rischio e pericolo non mi avesse portato in Italia travestito da soldato sordomuto.”

Haber dunque sale in treno, vestito da soldato italiano fingendosi sordomuto, ma Remigio deve guardarsi dalla vigile stupidità del colonnello Caneparo, responsabile della tradotta militare, il quale ha ormai capito che nel treno vi sono “uno o due nemici della patria” e lo mette alle strette. Ripartendo da Kolomiya interroga Remigio: “Mi dica, Capitano, in questo treno si trova un bambino ebreo?”
Remigio, come racconterà lui stesso nella memoria difensiva del processo militare a cui fu sottoposto a Verona, risponde con uno stratagemma: “(dopo la richiesta,ndr)… soltanto la mia presenza di spirito e la mia calma mi fecero “salvare capra e cavoli” come si suol dire; in primo luogo tergiversai e feci cenno di far scendere il bambino dalla tradotta, e ciò avvenuto, a nuova categorica richiesta detti la mia parola d’onore che il bambino non era più nella tradotta perché era disceso.”
Con un colpo di astuzia, dunque Remigio, per non disubbidire agli ordini ed allo stesso tempo salvare il piccolo “nemico della patria”, con un cenno lo fa scedere dal treno (per poi farlo risalire) e risponde: “No, non c’è nessuno!”.
Attraverso altre peripezie, alla fine Haber e Isaia, soprannominato Franceschino, giungono in Italia, e sono nascosti in casa di Remigio o da altri amici per tutto il periodo tra la fine del 1943 e la liberazione di Siena. In quei lunghj mesi oltretutto Remigio, presta soccorso a numerosi feriti partigiani dietro richiesta di Ranuccio Bianchi Bandinelli, importante personaggio della resistenza senese, senza richiedere nessuna garanzia in cambio. Difatti pochi mesi dopo la “Liberazione” Remigio subì un processo per reati legati al suo passato fascista e fu condannato a tre anni, sentenza poi annullata con l’amnistia voluta da Togliatti.

 


Di ritorno a Siena dal fronte russo, oltretutto Remigio, aveva tenuto due discorsi critici della guerra fascista e della sua organizzazione a Siena ed Abbadia San Salvatore, che fecero scalpore.
Racconta Pietro Ciabattini, storico fascista senese nel suo libro “Siena tra la scure e la falce e martello”: “Remigio Rugani era un buon parlatore, ma nella foga del racconto si lasciò sfuggire poco velate critiche sul modo in cui si era svolta la partecipazione italiana in quello scacchiere di guerra, attribuendo il tutto a coloro che effettivamente ne erano responsabili.”
A seguito di questa sparata Ciabattini si meraviglia che Rugani potesse continuare a guidare tranquillamente la propria Casa di cura “gremita fino all’inverosimile di renitenti alla leva”.
Tra l’8 settembre 1943 ed il 3 luglio 1944 infatti si attiva per nascondere altri 25 ebrei, partigiani e renitenti alla leva nella casa di cura e negli ospedali militari del Pendola e San Marco. Numerose le inchieste del governo repubblicano insospettito dalle denunzie anonime, come scrive sua moglie in una lettera inviata alla stampa in occasione del processo nell’immediato dopoguerra.
Isaia fu allevato dalla famglia Rugani al pari di un figlio. D’estate veniva mandato a studiare la sua lingua da alcuni monaci russi nelle Dolomiti, ed in seguito divenne interprete per conto della Fiat. Haber emigrò negli Stati Uniti per ricongiungersi con il fratello che era addirittura riuscito a fuggire dai lager sovietici (il triste primato dell’invenzione dei campi di concentramento spetta a Stalin) attraversando lo stretto di Bering.
Nel 1980 è stata pubblicata una memoria biografica dei due fratelli “Two Brothers: Sigfried and Max Haber” a cura del Division of Holocaust Studies, Institute of Contemporary Jewry, Hebrew University of Jerusalem.
Alla fine, il destino di Remigio si incrocerà drammaticamente anche con il Palio, con le vicende della sua amata Tartuca.
Il 15 agosto 1958 durante una rissa in Piazza della Posta tra tartuchini e chiocciolini, Remigio fu colpito violentemente alla pancia riportando un grave sventramento intestinale. Dopo mesi di convalescenza Remigio si ristabilì, ma i postumi di quell’incidente furono tali da non permettergli di condurre una vita nella piena condizione fisica. Lentamente si ritirò dalla vita pubblica e si spense nel suo letto il 19 maggio 1968, vegliato dai suoi familiari e dal “suo bambino” Isaia-Franceschino che in quella notte raccontò tutta la sua incredibile storia alla figlia Donata.
Le stesse vicende sono raccontate con efficacia nel bellissimo documentario promosso dall’ ”Istituto storico per la resistenza senese e la storia contemporanea” e realizzato da Silvia Folchi e Antonio Bartoli, intitolato “La responsabilità del bene” e proposto nel “Giorno della memoria” onorato per la prima volta da una Contrada, ai tartuchini che hanno partecipato alla serata ricordo nella Tartuca il 27 gennaio 2012.
Quello che colpisce nella personalità di Remigio è la sua estrema indipendenza da qualsiasi condizionamento esterno, rispetto ai dettami delle proprie idee e dei propri valori. La sua decisa volontà di affermazione lo conduce spesso a contrasti e rischi personali pesanti, di cui egli è consapevole con estrema lucidità, assumendosi tutte le responsabilità che tali decisioni comportano. Al di là della sue scelte giovanili, del suo carattere rissoso e prepotente, ma anche fortemente intriso da sentimenti di straordinaria generosità, la coscienza di Remigio si svela nel momento del pericolo. Sia nel caso del bambino che nel caso del dottore polacco, Remigio prende l’unica decisione che un uomo deve fare: porre la vita delle persone al di sopra di ogni convenienza personale, rifiutando la malvagità prodotta dalle dinamiche della guerra. Remigio in quel momento si oppone alle leggi ideologiche del governo fascista a cui pure egli aveva aderito ed alla cieca obbedienza militare.
Tommaso Landolfi ha scritto che “Al Palio si possono affidare le proprie sorti, ed esso medesimo segna per chi ha un cuore, un’epoca dell’anima”. Per la sua vicenda personale come Capitano della Tartuca, che lo porterà anche ad una fine lenta e tormentata, e per la sua vicenda di medico militare, Remigio, è il caso di dirlo, ha affidato la propria sorte al Palio ed alla Storia.

Giovanni Gigli

Giulio Pepi, con noi per l'ultima volta

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Parlare di Giulio su “Murella Cronache” senza che Giulio ci possa leggere, dedicargli un numero speciale senza che Giulio lo possa sfogliare e commentare, mi sembra quasi un atto sacrilego. Raccogliere l’eredità di Giulio e sostituirlo là dove, per legge, dobbiamo indicare il direttore responsabile lo è sicuramente. Ma per i redattori più giovani del giornale tartuchino, insieme alle più note firme come Andrea, Giovanni e Katiuscia, è stato il primo pensiero: inondare le pagine di “Murella” con un tributo di commossa gratitudine al loro direttore che se n’era andato. Parafrasando le belle belle parole di Mauro Barni scritte su “La Voce del Campo”, da quando Giulio ci ha lasciato la nostra Contrada non è più la stessa, perché noi, più o meno consapevolmente l’abbiamo guardata a tratti con i suoi occhi e spesso con il suo cuore. La Tartuca di “Giulio Pepi ricordi” pubblicata per tanti anni su “Murella” diviene da oggi un compendio della nostra storia recente e sarà un doveroso impegno per noi, riunire tutti i suoi articoli e pubblicarli in un unico volume. Nel frattempo, questo numero speciale, è stato pensato con l’intento di raccogliere le testimonianze di affetto ed i ricordi che legano molti tartuchini all’amato Giulio.
La prima volta che presi carta e penna per scrivere a “Giulio Pepi, direttore di Murella Cronache” fu nel 1985 a proposito del Giro in periferia di cui ero fermamente contrario. Il Direttore naturalmente non condivideva le mie conclusioni – tant’è che fece scrivere un articolo di risposta a Marcello Salerni - ma si complimentò con me e chiamandomi, per fare due chiacchiere, nel suo ufficio in via di Città mi incoraggiò a scrivere altri articoli su Murella. Da allora sono sempre rimasto affezionato al nostro organo di informazione e, di conseguenza, mi sono confrontato spesso con Giulio non senza qualche arrabbiatura da parte sua, come quando, d’accordo con Leonardo e Giulia, gli posticipammo l’uscita di un suo articolo. Non ritenevamo di mancargli di rispetto, ma Giulio se la prese moltissimo e ci scrisse una lettera di fuoco che ci bastò per capire quanto il nostro semplice impaginare e spostare non era poi così semplice. Era come se facessimo il gioco delle tre carte con la storia della Tartuca, era una cosa seria, e noi accusammo il colpo. Da allora gli scambi degli articoli e delle foto erano sempre accompagnati da biglietti di Giulio in cui raccomandava con garbo ed affetto la pubblicazione dell’articolo. Così, quando lo chiamavo al telefono per richiedergli un suo “Ricordo”, mi chiedeva sempre quanto doveva essere lungo ed io mi guardavo bene da imporgli limiti di sorta, avevo imparato bene la lezione: “Quanto vuole, Giulio, non ci sono problemi, lo spazio c’è”.
Qualche anno fa lo andai a trovare per scrivere un articolo sulla testina dell’Eremita, a seguito di un puntiglioso articolo apparso sulla stampa cittadina in cui si metteva in dubbio il collegamento con l’eroico cavaliere di Porta all’Arco. Il tema gli stava troppo a cuore. Questa manìa archivistica di andare a scartabellare documenti per cercare una verità storica incontrovertibile che uccide sogni e leggende era veramente deprecabile, e non risparmiava neanche la testina dell’Eremita. Ma che bellezza sentirsi raccontare da Giulio certe storie, come la leggenda del fantasma dell’Orto botanico, il frate Giomo, e la “rossa crociata bandiera” di Porta all’Arco! Nell’archivio della nostra Contrada abbiamo la fortuna di possedere una cassetta di quasi un’ora con Giulio che parla a ruota libera, a braccio, della sua Siena, delle guardie tutte senesi, della bottega di Galliano, di Remigio, del ’51, dei carretti e del gelato di Tonina. Eravamo andati da lui con Andrea Milani e Riccardo Butini per avere un breve intervento da inserire nel documentario sul cappotto del ’33. Facemmo una sola domanda e lui ci ignorò completamente, iniziando a raccontarci da quando suo babbo faceva il custode all’Orto botanico e non si fermò più. Continuammo a riprendere senza interromperlo consapevoli di realizzare uno storico documento di testimonianza da consegnare ai nostri figli e nipoti. E così spero che sia. L’ultima volta che Giulio è venuto in Contrada è stato nel 2004, in occasione dell’inaugurazione della nuova società. Sapevo quanto ci tenesse ad essere presente nella foto che immortala i soci nell’allora piazzetta dei Fisiocritici, e quindi gli preannunciai che sarei andato a prenderlo con la macchina. Fu molto felice, ed io che mi sentivo sempre in colpa per quell’articolo che non gli avevo pubblicato, ebbi come la sensazione di liberarmi da un peso. Mi aveva perdonato ed anche io ero felice. In attesa di quella ufficiale gli scattai alcune foto da solo, davanti alla nostra Società. Sono le ultime di Giulio in Contrada, a due passi dal suo Orto botanico.

Giovanni Gigli (da "Murella Cronache")

Silvio ...100 anni fa

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Era il 10 agosto 1910 ed in via dei Maestri nasceva Silvio Gigli. Coetaneo di Mario Bianchini, da poco scomparso, oggi anche Silvio avrebbe compiuto cento anni. Proprio in un momento in cui al Palio manca una voce radiofonica o televisiva che possa rappresentare la nostra Festa nel mondo (e quando ce ne sarebbe bisogno proprio adesso!) vogliamo ricordare il nostro grande contradaiolo. Il Palio di Silvio era gioco, beffa, ingenuo divertimento, avvolto da un'epica fatta di grandi uomini, donne favolose, figure mistiche, fantini venduti e beveroni eccitanti.  La narrazione del Palio di Silvio è colma di un immaginario favolistico soppiantato oggi dai poco eccitanti pareri dei veterinari a cui si domanda (sic!) addirittura il futuro del Palio. Manca, al Palio del 2010, una voce come quella di Silvio che ci restituisca quella magia che ancora oggi, nonostante tutto, lo muove, ripulita di tutti i "politicamente corretti" discorsi sulla sanità equina che, francamente, saranno interessanti per gli addetti ai lavori, ma hanno lo stesso effetto di un viagra all'incontrario. Silvio Gigli si era sposato nel nostro Oratorio e lì aveva celebrato anche le nozze d'oro e previsto il proprio funerale. Nel 1951 donò la fontanina alla Tartuca realizzando il suo sogno del battesimo contradaiolo, un crisma laico ormai celebrato da tutte le Contrade. Mangia d'Oro e Accademico della Crusca, Silvio Gigli è stato anche Presidente dell'Ente Provinciale per il Turismo. Nella Tartuca ha ricoperto la carica di tenente. Riascoltare oggi le radiocronache del 1967 e del 1972 ci fa ancora commuovere e soprattutto ci fa ancora sentire di più la sua assenza, ma Silvio trionfa immortale anche cento anni dopo.
(Nella foto un'immagine di Silvio Gigli nel Salone degli Specchi della vecchia Società)

S.Agostino dal buio alla luce

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Il Prato di Sant’Agostino nasce nel XII secolo con la costruzione della seconda cinta muraria della città e viene inglobata nel tessuto cittadino al momento della costruzione delle mura attuali (terza cinta).

Descrizione: Il Prato di Sant’Agostino è un giardino pubblico che ti appare improvvisamente, un attimo prima eri nella retta in falsopiano di Via delle Cerchia oppure scendevi curioso dalla Porta all’Arco, arrancavi proveniente dalla ripidissima Sant’Agata o magari da Via Mattioli che non lascia intravedere nulla se non uno squarcio di chiarore. Quindi arrivi. O meglio sei arrivato e una miriade di dettagli ti appaiono all’improvviso e senti forte la pienezza vitale di questo luogo simile a una scenografia teatrale che sa offrire un panorama deliziosamente realistico di Siena.

Affacciandosi dall’altissimo murello risulta chiaro come il rapporto tra il penetrante verde e la città murata sia essenziale. Vitale appunto. Ma torniamo all’approdo e ricorriamo alle parole dell’immenso poeta Mario Luzi che nel corso di un’intervista curata da Carlo Fini ebbe a dire: “vi giungevo al mattino, dopo aver attraversato la ruga d’ombra e di silenzio che caratterizzava Via del Casato. Arrivare al Prato rappresentava per me il passaggio dal buio alla luce. Un percorso liberatorio con un duplice significato: riemergere dalle cupezze di un itinerario inquietante e, dopo l’impegno al chiuso della scuola, ritrovare la libertà all’aria aperta.”

Infatti il Prato di Sant’Agostino è una forma di spazio intermedio sia sul piano urbanistico che emozionale che si riempie di tante realtà umane e professionali, ma non è un coacervo, piuttosto il centro di un macro insieme inserito sulla linea umana cittadina come un efficacissimo punto di snodo dominato dall’imponente Chiesa la cui facciata è prudentemente semplice e gioca a nascondersi dietro al portico colonnato dell’architetto, scenografo e arredatore Agostino Fantastici, oggetto di un recente restauro. Tutto intorno un fiorire di istituzioni secolari e di grandissimo prestigio: la Società Mutuo Soccorso Castelsenio, il Museo di Storia Naturale dell’Accademia dei Fisiocritici, l’Istituto superiore di studi musicali Rinaldo Franci, il Liceo Classico Piccolomini e il Liceo della Formazione, e nella contigua via Mattioli, l’orto botanico dell’Università di Siena e le Facoltà di Giurisprudenza e Scienze Politiche dell’Università di Siena.

Ci sarebbe da restare storditi da una tale densità di cultura e scienza e questi luoghi dovrebbero essere pregni di un’atmosfera austera; invece no, proprio al centro di questa costellazione accademica vive da protagonista il voluttuoso caos calmo del parco pubblico, quello spazio intermedio cui facevo cenno prima che si riempie quotidianamente della vita comune delle persone, degli anziani, degli studenti, dei viaggiatori, dei bambini e delle loro infinite partite di calcio.

In questo Prato, dove vive un organismo culturale che non teme l’incedere dei tempi, si respira il vigore storico portato dall’essere la meravigliosa platea della celebrazione dei trionfi sul campo, dei sogni e delle certezze del popolo tartuchino. Essere della Tartuca vuol dire che del Prato hai le chiavi magiche e ne conosci ogni angolo, qui hai stretto il tuo legame con la Contrada. Starai qui per sempre a goderti lo spettacolo e ad esserne partecipe, godendo nel vedere le generazioni tartuchine stamburare e girare la bandiera sguazzando nel brodo primordiale dell’incubatore contradaiolo e quando ne avrai voglia respirerai la polverosa aria dove vagano sospese particelle di senesità.

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