Canapino, la Tartuca nel sangue

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Sul volto di Canapino erano impresse le tribolazioni e le fatiche di una lunga stagione paliesca. La sua faccia era lo specchio della sua vita, segnata dal duro lavoro e da qualche rimpianto, avara eredità di una carriera costruita su ben 46 Palii corsi e soli tre vinti.

E’ stato il fantino più fedele alla Tartuca con i suoi 10 giubbetti seppure il suo esordio fu caratterizzato dal rapporto con la Chiocciola. La sua storia ha inizio nel luglio del 1960. Canapino si allena da Ezio Papi ed è proprio il mangino di San Marco Dante Bruni - padre del nostro Stefano - a chiamarlo per correre il Palio su un cavallo eccezionale, la grande Uberta che dopo quella carriera vinse quattro Palii di fila.
Ma Leonardo ha stoffa, grande tecnica ed incoscienza giovanile così nel 1963, nella Pantera ottiene la fiducia di Ettore Bastiani per montare Topolone (all’epoca Eucalipto) ancora a digiuno di vittorie. Fu il primo trionfo per entrambi. Quattro anni dopo avviene il celebre “scambio” di fantini tra Chiocciola e Tartuca. Canapino, attraverso l’amicizia con Adù e Mauro Bernadoni rompe il rapporto con i dirigenti di San Marco che quasi per dispetto vanno a prendersi Antonio Trinetti detto Canapetta che aveva già corso cinque carriere con il giubbetto giallo e turchino. Leonardo entra nella storia del Palio dalla porta d’ingresso. A pochi anni dall’esordio Canapino infatti ha già conosciuto uomini e cavalli tra i più rappresentativi ed importanti della nostra Festa. Sono gli anni sessanta, il Palio è ancora un gioco ed il fantino è ancora un uomo semplice, senza grandi pretese, che fa del suo mestiere un modo per guadagnare quel poco o tanto per vivere dignitosamente. E Leonardo non ha mai avuto grandi pretese. Non ha mai avuto la furbizia o la scaltrezza del doppio giochista, o l’ambizione sfrenata di essere qualcuno. Lui voleva solo dimostrare di valere e di essere rispettato per quello che era. E’ stato l’ultimo dei fantini semplici e senza malizia di un Palio che ci sembra ingenuo visto con gli occhi di oggi. Una Festa autentica immortalata da quel bellissimo film-affresco di Luciano Emmer. Le grandi star sarebbero arrivate di lì a poco.
Canapino al secondo Palio in Castelvecchio ha la possibilità di montare di nuovo Topolone. Ma cosa avrà pensato quel 2 luglio 1967 quando il suo rivale Canapetta lo lascia al canape (il Palio ci permette di fare anche questi giochi di parole). Lui è al quarto posto, con il bellissimo giubbetto giallo tartuchino e uno zucchino troppo largo. La Lupa, tra le favorite, con Danubio e Canapetta aspetta ad entrare. Vi ricordate la radiocronaca di Silvio Gigli “La Lupa che fa? Perché non entra?”. Topolone scarta improvvisamente e si gira verso il Casato. E la Lupa entra. Quando l’Aquila e tutto il gruppo sono quasi alla Fonte, Leonardo guarda il mossiere stupefatto. Dal verrocchio Vittorio Baini gli fa cenno di andare e lui parte trasformandosi in quello che sarà per sempre il nostro meraviglioso “Pazzo volante”. Al Casato il primo franìo: cadono Bruco, Drago e Onda. Canapetta va in testa seguito da Civetta e Istrice. Canapino spinge al massimo Topolone, lo nerba di brutto. Adesso è quarto. Bazza nella Civetta passa al comando ma Arianna non se la sente di girare al terzo San Martino e così va a dritto, seguita a ruota dall’Istrice. La Lupa si riporta in testa ma per pochi metri perché il bianco Danubio si blocca e fa volare sul tufo Canapetta proprio davanti ai materassi mentre passa Canapino che già urla di gioia a nerbo alzato con lo zucchino sugli occhi, e lo farà fino al bandierino. E’ questa l’immagine più bella ed emozionante del nostro rapporto con Leonardo Viti.
arrivo luglio 1967E’ passato solo un anno dall’inzio della lunga storia di amore tra la Tartuca e Canapino, che si concluderà undici anni dopo, ma il seguito sarà solo un susseguirsi di sofferenze e contrasti. Prima della terza ed ultima vittoria raggiunta nel 1971 nella Pantera con Topolone, Leonardo monterà tre volte Sambrina, il cavallo che, in quanto a trionfi e sfortuna, sembra il suo l’alter-ego in campo equino. La loro sventura si racchiude simbolicamente nel rocambolesco Palio del 16 luglio 1968. L’Oca con Aceto e Livietta dopo essere stata prima per un giro allarga a S. Martino e si fa passare da un agguerritissimo gruppo formato da Onda, Istrice, Leocorno, Torre, Chiocciola e Montone con Canapino e Danubio. All’inizio del terzo giro quando il gruppo di testa ha passato il bandierino Aceto ha appena girato al Casato. Il distacco è abissale. Dopo il terzo San Martino succede di tutto. Il Leocorno con Guanto ed Ercole è in testa. La Torre con Bazza e Sambrina allarga e cadendo danneggia anche l’Onda. Cadono anche la Chiocciola e l’Istrice. Ma al Casato Ercole, forse distratto da un cavallo scosso doppiato, si impunta e non gira. Arriva Sambrina scossa e si ferma anche lei. Arriva allora Canapino con Danubio, la vittoria potrebber essere sua ma la ressa al Casato è tale che anche Leonardo va in confusione e non prosegue la corsa. Si ferma, per fortuna anche Fulgida nella Chiocciola. Aceto è l’ultimo ad arrivare ma lui prosegue e va a vincere un Palio incredibile.
Il futuro di Andrea de Gortes e di Canapino è già scritto in questa memorabile carriera. Aceto razionale, calcolatore, scaltro ed anche fortunato. Canapino troppo emotivo, sente il Palio come solo un senese può sentirlo, la sua tensione nervosa spesso ha la meglio sulle qualità tecniche con le quali primeggia su tutti. La sorte, poi, fa il resto. Il 2 luglio 1971 però, il figlio di Enrico Viti, si prende la sua grande rivincita con Mirabella nella Pantera. Con una memorabile manovra, al primo Casato si libera di Drago e Istrice e prende la testa distaccando di tre colonnini gli altri. L’immagine dell’arrivo è di quelle che non si scordano. A nerbo alzato, libero dallo zucchino, con i capelli al vento, il volto è illuminato da un sorriso di gioia dirompente. Sarà, purtroppo, l’ultima volta che lo vedremo sorridere in Piazza. Canapino ha solo 29 anni ma la seppur lunga carriera (l’ultimo Palio sarà quello dello straordinario del 1986 nella Torre con Bizzarro ed infine le prove con la Tartuca nel 1988 e con la Selva nel 1999) che ha ancora davanti gli riserverà più dolori che momenti di gioia. Con il giubbetto di Castelvecchio corre ancora cinque volte con cavalli non certo alla sua altezza come Musella, Tobruk, Quadrivio e Lamadina. Con Quebel nel 1978 tutti noi credevamo ancora nel Pazzo Volante. Pur in un clima particolarmente colmo di tensioni dovuto alla provocazione dello Zedde nella Chiocciola che lo scaraventò a terra durante la prima prova agguantandolo per il collo, noi credevamo ancora nel Pazzo Volante. Ma non avevamo fatto i conti con lo strapotere di Urbino che faceva capolino nell’olimpo del Palio.
Il rapporto viscerale con la nostra Contrada fu come quello di tutti i grandi amanti costellato da slanci, entusiasmi e incomprensioni. Con Adù e Mauro, gli amici di una vita, condivise le scelte attraversando i momenti felici di una esperienza professionale impegnativa e coinvolgente ed accettando con umiltà i rovesci affannosi del destino. Le sue prestazioni paliesche che contrastano visibilmente con la proficua attività di allenatore di cavalli da Piazza, erano determinate in gran parte dal suo troppo sentire la Festa.
Canapino non era solo un fantino del Palio, lui era un uomo di Palio nato a Siena e perciò viveva l’ambiente contradaiolo in maniera totale senza quei distacchi mentali che oggi tutti i fantini si autoimpongono. E’ per questo che non possiamo dire, perché ci sembra ancora impossibile, che la firma di Leonardo possa essere impressa solo su tre carriere. Lui di Palii in realtà ne ha vinti altri 22 perché questo è il numero totale delle vittorie dei cavalli ai quali ha insegnato a vincere il Palio. L’ultima immagine di Canapino nella Tartuca va a quella bellissima serata trascorsa agli Orti del Tolomei nel giugno 2002 per ricordare il trentennale della vittoria del Palio del 1972 e indirettamente anche l’amara sconfitta dell’agosto 1971. Insieme a noi c’erano tutti i protagonisti dell’epoca: Bazza, Canapino ed Aceto. Andò a prenderlo nel suo ranch di Asciano il nostro Barbaresco Riccardo Salvini. Durante il viaggio in auto che lo riportava in Tartuca dopo tanti anni, vedendolo particolarmente teso, Riccardo gli chiese se si sentiva bene. Leonardo con un filo di voce gli rispose subito: “Si, Si, sto bene.. ma mi sento molto emozionato. Mi sembra di andare in Contrada per correre una prova.” Dopo così tanto tempo Leonardo non era cambiato, quel malessere nervoso lo divorava ancora, il Palio e la Tartuca erano ancora dentro di lui. Profondamente, fino all’ultimo.

Giovanni Gigli

Giorgio Civai. L'anima di Castelsenio

giorgiotondo

Lui aveva dieci anni esatti (era nato nel 1926) quando si aggregò a “quelli più grandi” – come eravamo noi – a Sant’Agostino. Poi c’erano altri più grandi, e ancora più grandi, in una scala che nessuno aveva fatto ma che si sentiva senza sapere perché. Allora tre anni rappresentavano gli archi della parentesi. A quelli più piccoli ci rivolgevamo sempre per fare il Palio "con i cavalli": e s'imbrigliavano con gli spaghi. Oppure si imbarcavano per lavori di "sussistenza" o di "servizi vari" come quello di andare fuori Porta Tufi a cogliere i sanguinelli (anche se noi avevamo l'orto bo­tanico a portata di mano); per drizzare i bossoli di carta quando si giocava a "Pamela", per raccattare i palloni quando volavano giù per la piaggia fino a San Giuseppe, o per montare di guardia a Porta all'Arco per darci un segno se veniva il buon vigile Balena (che aveva sempre ragione e noi sempre torto e si scappava regolarmente, non come fanno certi cialtroncelli di oggi che vogliono mettersi a reclamare i "diritti"). Era il più bello di tutti, allegro e ingegnoso. Fu anche della squadretta, insieme ad Enzo Talluri, Mario Morelli, Aldo Tamburi, Elio Cini e Ciro Gaggiani, che tentava di riprodurre le scene di Tarzan con le vitalbe, in fondo al bosco dell'orto botanico. E ci usciva quasi sempre il ginocchio malconcio. Avevamo formato anche una squadra di calcio (quelli del Senio erano merce scelta) e d'inverno si giocava con quelli della Chiocciola (una volta a Sant'Agostino e una volta nel piazzalone davanti alla Porta San Marco), con quelli dell'Aquila (al "pallone" sotto Fortezza) o con quelli dell'Onda al Mercato. C'erano anche Guido Cencini, Ferodo Bianchi, Bruno Burroni, Vasco Stanghellini, Eraldo Baldi, Danilo Pepi: tutti della Tartuca. Alvaro Minucci della Pantera, Ilio Bruni e Mimmi Iannone della Chiocciola, Irio Sbardellati dell'Onda, Sergio Cardascia dell'Aquila. Ma di anni sono passati troppi e allora il "diario" della Contrada non lo tenevo: diversi nomi possono saltare.

giorgio1Lui stava venendo fuori con i disegni, recitava a Castelsenio, si dava tanto daffare per la festa della Madonna dell'8 settembre. Una volta si fece nella "spiaggina" di Sant'Agostino e venne stupenda. Augusto Mazzini si commosse e ci dette perfino due braccialetti (dì quelli stretti a tavola) e due bandiere (di quelle di tela). Ma la "spiaggina" (attuale Piazzetta Silvio Gigli, ndr) , si capisce, era un angolo stupendo, e non invaso perversamente dalle macchine come oggi, con violenza, prepotenza e sensibilità da gazzillori. Invano Renato Pellizzer ha fatto mettere una catena. Qualche screanzato ha rotto il lucchetto e i "protezio­nisti" si sono scoraggiati (e hanno fatto male). La pendenza era proprio adatta per il Palio con i barberi. Ne avevano di belli Aldo Tamburi e Nanni Martellucci: di quelli grossi di legno, verniciati. Ma bisognava proteggerli dalla bocca spalancata della gavina dove quasi sempre erano tentati di ruzzolare (e quanti ne ha ingoiati di quelli piccoli, che si compravano dal sor Ottavio Talluri insieme alle liste di carta Lucida che, con pazienza, si ritagliavano a fettuccine e si attaccavano con la colla fatta in casa!). Con le liste si facevano anche le "pennacchiere" (che noi, sbagliando, si chiamavano spen­nacchiere) e gli zucchini con tanto di doppia visiera. Artigia­ni maestri erano, neanche a farlo apposta, proprio lui, Giorgio e Ferodo. Mi ricordo che Aldo, sempre in prima fila con tutti i giocattoli del creato, aveva un tamburo invidiabile. Credo sia stato il primo su cui Giorgio dette i colpi di mazza e provò il rullo "alla Galliano". E come gli riusciva bene! Intanto gli anni passa­vano e i ragazzi crescevano. Venivano sù come il grano, Boggione, Ciccio Barontini, Gino Bar­celli, Luciano Chellini, Gastone Brandani, Mario Martinelli detto "Morino" Giorgio Lunetti, Luciano e Rino Bartalini (che non erano nè fratelli nè cugini). E ogni tanto spuntavano Ivo Baldi, Lu­ciano Cocci, Renzino Bartalucci, Ivo Giachetti, Ubaldo Turillazzi, Mario Neri e Giuseppe Mazzini. La squadra era diventata uno squa­drone quando scoppiò la guerra e sciupò ogni cosa. Quelli più grandi tutti sotto le armi (Dario, Gerardo, Bruno Duranti, e via di seguito). Quelli più piccoli scombinati fra la scuola, le adunate e il lungo conteggio per il Palio che manca­va, per le bandiere che non si vedevano più (alle processioni e ai funerali o il paggio ai matri­moni), per la società ridotta ai minimi termini. I più coraggiosi furono reclutati per gli "spettacoli" per i feriti delle forzearmate. Il teatrino "Senio" fu la forza centipetra di noi ragazzi. Ma solo in pochi sapevano recitare. I più stavano a guardare. Ci si confondevano Carlino Arrighi e Odelisco Lambardi e il più bravo era Giorgio. Ma dietro a lui venivano bene anche Enzo Talluri e Aldo Tamburi (la cui vera professionalità la metteva nel fare il suggeritore e "imbeccare" a tempo giusto gli attori che si scordavano facilmente la parte). Furono anni duri. Si studiava a brutto allora e, d'estate, con Castelsenio chiuso (ci tornarono gli sfollati) e senza Contrada attiva, si pendolava parecchio e si cominciava a darsi le arie di giovanottelli in cerca dell'immancabile destino e, magari, di qualche citta delle suore di Sant'Anna, contentandoci di uno sguardo e litigandoci un sorriso. Tempi di sospiri. Poi i grandi marosi del '43 e del '44. Giorgio Civai partì anche lui. Andò in marina. Fummo sballottati chi a destra chi a sinistra. Ci si vedeva qualche volta con la divisa, ma non avevamo il tempo di stare insieme. Neppure per qualche breve licenza. Sussultava ogni cosa, pareva un terremoto. Anche le nostre coscienze. Fummo chiamati a delle scelte che di solito è difficile fare a qua‑rant'anni e noi ne avevamo appena diciotto o diciannove. Non c'era consiglio di babbo che decidesse. Si voleva fare da noi. E in questo la gioventù si è sempre somi­gliata. Fu un gioco di busso­lotti, ma più di uno ci lasciò la pelle per l'"ideale". Quando ci ritrovammo avevamo tanto bisogno di sentirsi giovani, un po' vanitosi, ma so­pratutto sereni. Mi pare che Giorgio arrivò in tempo per il primo Palio. Di certo fu a quello straordinario del 20 agosto 1945, perchè si vestì da paggio por­ta-armi. E nel 1946, fra un'indecisione e un'altra fra tamburino e alfiere, finì per vestirsi da alfiere per il giro annuale, quando ai Tufi si erano portati Mauro Bernardoni, Ilio Guideri, Adù e un paio d'altri ad imparare per bene insieme ai vecchi. Giorgio era sbocciato. Sapeva fare tutto: il"batterista" nelle orchestre, il"vetrinista", il pittore e il "cartellonista", il "presentatore" e il regista. Passò alcuni mesi fuori, tra set­tembre e maggio, per via del lavoro che stentava a trovare. Tornava sempre con idee nuove e pieno di buona volontà. Andò a Trieste, suo vecchio porto di mare, e nel 1951 condusse al Palio Gianna, la fidanzata. Era la prima volta e portò subito bene, perchè dopo sedici anni riuscimmo a strappare le ali alla fortuna. Mi ricordo che si trascinava dietro il suo carattere tutto sorriso ma anche legger­mente schivo, tutt'altro che invadente, portato sempre alla tol­leranza, in attesa di disposizioni di quelli più grandi per non parlare di quelli più vecchi del la Contrada, che - a buona ragione - si idolatrava e rispettava qualche volta anche scalpitand (senza farsi vedere). Però cominciò da allor un suo inserimento nuovo, più autonomo. Stava diventando uno dei non molti giovanotti-pilota per quelli che dovevano seguire Cominciò a scrivere le primi poesie, le prime canzonette, pe] il numero unico del 1953 feci anche un paio di vignette (cartelloni, sia nel 1951 che ne. 1953 e, dopo, nel '67 e nel '72 costituirono il suo regno, la sui pedana di lancio, la sua presen­tazione anche come caricatu­rista). Mai una volta si fosse battuto il petto. Mai una volte avesse detto "io". "Sciocchezze", diceva. E tutti, anche noi più: anziani, si ripassava a memoria l'umiltà. Lavorò dal Ceccuzzi, negli anni '56, '57 mi pare, come vetrinista in Via Montanini. De quelle parti avevo l'ufficio e la redazione de' "La Nazione". Spesso lo salutavo al di là del vetro, perchè lui era tutto proteso sopra le tavole di legno, tre lunghe pezze di stoffa di cento colori, con cento spilli sul bavero, un lapis in bocca e un righello lungo che spuntava fuori dal taschino come un periscopio. Si era già sposato ed era nato Cesare. Si era sposato anche con Castelsenio ed era divenuto un autoclave, perchè con le sue tante ingegnosità era capace di alzare anche l'acqua.

giorgiocivai tufi 12Cesare sembrò poco e venne fuori anche Gianni. I suoi figli furono la colla d'innesto con il mondo della gioventù con il quale, del resto, faceva sempre racca perchè si sentiva giovane di dentro anche se gli anni passavano senza fargli troppo male, nè togliere un capello o scavare una piccola ruga. Il suo era un temperamento di quelli che se fossero in vendita farebbero la fortuna dello spacciatore. Ottimista, rigoglioso, non stava però ad aspettare la manna dal cielo. Quando aveva un'idea ci si baloccava, cercava di ravversarla per benino, restava in forse qualche tempo (perchè era un amante del perfezionismo fino allo scrupolo), eppoi si lanciava e allora nessuno gli teneva dietro. Fra tante cose che sapeva fare, fra le tante sue pas­sioni, c'era la gastronomia. Divideva volentieri il fardello con Nirvano Fossi, tra una battuta e un'altra, tra un frizzo e un altro, e tirava fuori certi risultati che qualche locale rinomato davvero se li sognava (e se li sogna). Vennero fuori quasi per scherzo, tutti i due, quando co­minciarono i lavori per la ri­strutturazione di Castelsenio e tutta la cucina era in un paio di bracieri, qualche pentolona e il chiassino con il cielo per soffitto. Incominciarono allora i "venerdì". Alla fine di ogni serata, stanchi, sudati e allegri, si arrotolavano il grembiule alla bella maniera, si sedevano a un pinzo della lunga tavola, Nirvano con la chitarra e Giorgio con le nacchere brasiliane o con il cembalo, e intonavano quelle serenate struggenti alla "bella, meravigliosa la mia città". Erano cori che si acquietavano, piano piano, quando la notte non era più notte e una piccola striscia bianca stentava a annunciare il giorno. E per vederla bisognava spostarsi a Sant'Agostino quasi in punta di piedi.

Gli occhi brillavano, sorrideva sereno sotto i baffoni che si era fatto crescere forse per invecchiarsi perchè il viso restava ostinatamente giovanissi­mo, e sbirciava i suoi ragazzi, la sua "nidiata" che non sapeva brontolare con rabbia, che non sapeva redarguire senza un tocco di garbo. Tutti "suoi figlioli", perchè di loro sarà la Tartuca, "non ve lo ricordate che dicevano a noi i nostri babbi"? E si rivolgeva a Adù che scriveva i voti con il pennarello sulle magliette dell' "aggiungi un posto a tavola". Eppure ebbe a passare i suoi periodi di malattia e soffe­renza, operazioni chirurgiche le vene che facevano bizze e "ostruzionismo", come lui senza prendersela diceva. E, da ultimo, anche il cuore che si imbizzarriva. Quando a Milano entrò nella sala operatoria, volle con sè il fazzoletto della Tartuca, sotto lo stretto materasso, e cantic­chiò l'inno fino a che gli occhi si chiusero nell'oblio. Dopo, il miracolo. Aveva potuto buttar via anche il ba­stone che per qualche anno lo aiutava nelle piccole passeggiate fra l' "uovo di Siena" (come chia­mava Castelvecchio alla maniera di Wolfango Valsecchi) e l'angolo dell'unto. E aveva moltiplicato le recite nelle lunghe sere d'inverno, dopo aver dato vita a una stagione di cabaret con il meglio fra gli specialisti italiani. Faceva tutto da sè. Scriveva le commedie, consegnava le parti, componeva perfino le canzoni con la musica del suo amico Mikey, guidava la regìa, le prove, le luci, le scene, tutto. "Questi ragazzi si devono divertire", di­ceva. "Più che ai nostri tempi". "La Contrada è anche questo". "Eppoi si sentono più vicini e più amici". E Giorgio non mollava, un giorno dietro un altro, una stagione dietro un'altra. Manifesti, locandine, programmi lanciati e rilanciati anche in televisione casareccia, anche sulla cronaca. Il "Teatrino di Castelsenio" appariva più una palestra di allenamento per la comunità deì ragazzi che un'attività, sussiegosa. Come doveva essere. Cultura e tempo libero, come si dice oggi? No, meglio Contrada, che tutto comprende. A un certo punto anche i grandi non ebbero bene finchè non debut­tarono. E si scroprirono i grandi attori, le dive, le graziose "show-girls", e una nuvola di aspiranti da quattro a trenta an­ni. Giorgio Civai era il pernio della ruota e su lui tutto girava tranquillo.

Poi scendeva, fazzoletto bianco al collo e "toc" in testa: tornava ad essere il "barone della cucina". Tegami, salse, coltelli (bisogna arrotarli, urlava!), sughi al bacio e panna gettata al centro della padella come i grandi "chef". "O nini, fai una corsa dal fruttivendolo e fatti dare gli odori che lui sa": e il ragazzino di turno partiva, la­sciando per un momento i compagni con i tavoli in mano. Il lungo vicolo si riempiva, le tovaglie candide si aprivano, la striscia costellata di bottiglie arrivava fino alla stalla ed oltre. Lui si affaticava, sudava, qualche punta di dito scottava, qualche manciata di pepe in più, il volto sì arrossiva alla fiamma. Poi le immancabili arrab­biature: sessanta, ottanta, cento ospiti in più del previsto. "Perderebbe la pazienza anche Sant'Antonio" disse una sera Adù. Giorgio la perdeva per due minuti, poi la ritrovava subito. E gli ospiti non sapevano mai che c'erano tanti di più.

E' difficile tenere a mente gli incarichi che ebbe in Tartuca e quelli che gli piovevano addosso in Castelsenio dove fu anche Presidente passando poi la palla a Cesare, il figlio, e continuando imperterrito la sua quotidiana dedizione. Collaborava spesso a questo giornalino. Si può dire lo tenne a battesimo con Ugo Tallurì, Giordano Barbarulli e qualche altro. Scriveva meravi­gliosamente e, secondo il suo carattere, suscitava la risata con le sue "agopunture": il chè non è cosa facile. Poi tenne per due anni la Compagnia di Porta all'Arco e la risollevò dall'oblìo (lui che aveva vissuto i tempi d'oro) e stavolta era passato alla segreteria per la compilazione di lettere difficili e diplomatiche. Per la sera del sabato, alla festa titolare, era diventa­to lezzo perchè i ragazzi avevano messo male i tavoli lungo la strada ma pochi giorni dopo, alla cena della prova generale, era disteso e soddisfatto del bel lavoro di Robertino Burroni, dei suoi aiuti, delle care donne. Cantava e stornellava cercando di mettere una toppa agli stonati. E anche venerdì, 13 luglio, si trattenne con gli altri che non avevano voglia di lasciare il "chiassino", fino alle una e mezzo. Un'altra riunione a tavola, un'altra cena fra amici. Si sparpagliarono di fronte alla Chiesa e lui sparì dentro il portone con un "buona notte ragazzi" più squillante del solito.

Appena dieci ore, il brutto sogno, l'incubo. Giorgio Civai era morto. Qualcuno urlava, molti piangevano, la Chiesa si era aperta unicamente per lui. Venne Mauro Barni per la chiusura della cassa, per l'annuncio sul giornale. Tornarono in molti dal mare, dalle ferie. Ogni momento arrivavano fiori, tanti fiori che lo circondarono, quasi lo soffocarono. Una moltitudine di gente inebetita, incredula, vagante. Tutti allo sbando a chiedersi se era vero, se era questa la vita, e se lo era perchè non organiz­ziamo meglio i nostri giorni, perchè non ci vogliamo più bene, perchè ci pensiamo solo dopo, facendo sempre un male più grande per schiacciare quello più piccolo. La gente ripeteva con estenuante balbettìo le frasi inconcludenti e soffocanti che stanno ai bordi della grande verità. Ma di certo era solo un brutto sogno. Accarezzammo in molti questa ipotesi remota e, minuto dopo minuto, incominciammo a persuaderci. Infatti Giorgio Civai continuava a sorridere in ogni posto abituale. Continuava a scrivere qualcosa, a buttar giù un progettino, a riaprire la cucina di Castelsenio, ad arrotare un lungo coltello, a intonare un nuovissimo motivo. Era lì, dietro le bandiere a fascio nel salone, che parlava con qualcuno che poteva anche essere Nirvano.

Giulio Pepi (da Murella Cronache)
foto: in alto Giorgio Civai negli anni '60 a Castelsenio con Danilo Pepi; sotto, Giorgio al Chiesino dei Tufi nel giugno degli anni '80

Gallery: Seniocabaret '80

Riccardo Poppi. Il cuore della stalla

Immagino sia successo a tanti di noi, quella mattina dentro l’Oratorio della nostra Contrada, di guardare quel feretro abbracciato, e nello stesso tempo protetto da quella bandiera gialla e celeste (che nell’occasione ci piace immaginare, anche e con tanto amore, ricamata dalle famose quattro ragazze) di pensare di averti conosciuto da sempre ma che forse proprio ora nel momento in cui ci stavi salutando, forse ancora non ti avevamo ancora imparato a conoscere. Addio Riccardo, ci hai lasciato come spesso, anzi sempre nella vita facevi le tue cose…..in punta di piedi. Riccardo, Ricky o meglio rikypittopiù semlcemente “il Poppi”, per te la Tartuca era tutto! Bravo Barbaresco, un po’ meno bravo portiere del Senio.  Nessuno, però potrà mai dimenticare quella tua grande parata, fatta la sera del 2 Luglio 1972, quando con grande scelta di tempo, ma soprattutto con grande coraggio, ti tuffasti tra le zampe della cavallina Mirabella che dopo aver disarcionato Aceto correva libera sul tufo. Quel tuo gesto fu determinante per la vittoria del Palio e di questo te ne saremo sempre grati.  “ Poppi vai piano”… Non c’è tartuchino con più di quarant’anni che non abbia sentito questa frase, che tutti a te dicevano per farti arrabbiare, mentre si accompagnava il cavallo in Piazza per la prova. Ho ancora davanti a me il ricordo di quella notte quando andammo in Piazza per provare la Mossa con Lamadina. All’improvviso Canapino dette una frustata alla cavalla che come impazzita prese il via giù per il Casato e te lì accanto a lei, attaccato alle briglie senza mollare. Ti fermasti o meglio vi fermasti tutti e due addosso ad un cartello di divieto di transito.  Eri aricky terra, con la faccia piena di sangue, ma con le redini sempre saldamente in mano,  e la cavallina lì, ferma accanto a te, impaurita dall’incredibile tonfo provocato dall’impatto del cartello con la tua faccia. Ogni anno, dopo che rinnovammo la Società in Tommaso Pendola, prendevi le ferie (sei stato anche un bravo e scrupoloso infermiere) per imbiancare la Società, il tutto sempre in silenzio e soprattutto sempre senza farlo pesare.
Eri fatto così. Cantavi benissimo, nella Corale, nei Madrigalisti Senesi, spesso la sera nel Chiasso raccontavi dei tuoi concerti in Spagna, ma noi di te ricorderemo e non dimenticheremo mai quel Te Deum cantato dentro la Stalla, con tanto di corona di alloro in testa. Dovevi chiedere scusa a Sant’Antonio Abate di qualcosa che te sapevi e che noi si sapeva!!!Di lì a poco iniziarono ad arrivare nella nostra stalla Uberto, Benito, Figaro…roba da non credere.
Eri un signore, andammo in settimana bianca e portasti con te “Sei valletti”, il tutto solo per farti fare compagnia durante la notte.  I primi “Tre Valletti”  finirono il martedì, gli altri tre il giovedì…non ti rimase altro da fare che andare al supermarket e comprare un’altra bottiglia, comunque sempre di “Tre Valletti”. Come portiere, eri fortissimo tra i pali, un po’ meno nelle uscite, ricordo quella volta a Uopini durante un Torneo Amatori quando un cross dalla metà campo avversaria  finì incredibilmente dentro la nostra porta. Ti giustificasti dicendo:” Non è colpa mia, è il terreno, ci so i motti!!! ”. La risposta immediata di un imbufalito Franchino Zazzeroni fu :”I motti?! Sò ma i gotti!!!“. Eri anche un po’ permaloso, riuscivi a tenere il muso anche per due o tre minuti, ma poi tutto tornava come prima. Nel breve ricordo fatto per te nell’ultimo numero di Murella Cronache c’è la famosa foto di te e Pitto che litigate, con i due cavalli in mano, dopo la Prima Prova del Palio di luglio del 1978, eri arrabbiato ed avevi ragione di esserlo. C’è un’altra foto che noi tartuchini abbiamo ben presente nei nostri occhi, quella di te e Gigi abbracciati nella Stalla dopo la meravigliosa vittoria dell’Agosto 2004.  Due uomini felici, abbracciati e commossi che troviamo dentro il Numero Unico “Alla zitta”. Una grande vittoria di una Grande Contrada, fatta “Alla zitta”, come nel tuo stile ci hai lasciato, “alla zitta”. Addio Riccardo, non ti scorderemo mai!!!

Luca Guideri

Nella foto in alto, Riccardo Poppi in un scambio di battute con Pitto, barbaresco della Chiocciola nel 1978, nella foto a destra, è ritratto a Montalcino nel 1985.

Cice, la fata tartuchina

cicetonda

Il fazzoletto della Tartuca di Cice sventolava più alto di tutti la sera del 16 agosto 2002. Annodato al piatto d'argento del Palio di Botero ci ricordava che quella vittoria era anche sua. Sotto, nella marea gialla e turchina del tripudio tartuchino, si abbracciavano piangendo di gioia tutti i suoi bambini -ormai diventati uomini e donne -, i suoi ragazzi ai quali aveva insegnato per tanti anni come voler bene alla Contrada. Era il primo Palio vinto senza di lei, ma la figliola di Dina era lì con noi e con noi trionfava immortale. Si è soliti ripetere "lascerà un vuoto", quando un tartuchino di razza ci lascia, consapevoli però che qualcun altro prima o poi ne raccoglierà l'eredità, ma nel caso di Giovanna Piccioli Guideri non è così. Cice era unica, un marchio di fabbrica irripetibile, possedeva un fuoco particolare, una passionalità irrefrenabile, c'era un amore sconfinato dentro quel corpo di donna minuta. Dal teatro, alla cucina, dal suo impegno con i piccoli a quello della "stanzina", sapeva coinvolgere tutti senza distinzioni di sorta. Potevi esserti avvicinato alla Contrada da poco oppure esserci nato, Cice aveva per tutti la stessa considerazione, tutti andavano presi quello che poteva fare per la famiglia Tartuca. Castelsenio era la sua casa e se volessimo scegliere un personaggio simbolo per rappresentare tutte le cene e le feste della Società di Via delle Murella, quel personaggio non potrebbe essere che lei, la Fata di Castelvecchio. Per ricordarla abbiamo scelto un'intervista ad opera di Silvano Carletti pubblicata nel numero di settembre del 2004 della rivista senese "il Carroccio", poche parole, semplici e dirette come era nel suo stile.

Saper vincere e saper perdere

di Silvano Carletti (da "il Carroccio")

S'è ripetuto ad Agosto quello che era successo a Luglio: le "du chiacchiere" l'ho dovute fare il giorno successivo perché il personaggio questa volta era occupato con la sua Contrada. Allora di buon mattino, previa telefonata per non... disturbare, sono salito in Castelvecchio al 18, nel cuore del rione della Tartuca, e sono entrato in casa Guideri-Piccioli. Nel passato Pasquale e Dina, personaggi straordinari e famosi della Siena cosiddetta "minore", hanno generato e tramandato ai posteri un personaggio altret­tanto famoso.

Buongiorno signora Giovanna in arte "Cice"..
Buongiorno signor Carletti, lo vuole un caffeino?
Si, grazie, ma diamoci del tu, quanti ne hai visti vince' con ieri sera?
Sei: 1951, '53, '67, '72, '91 e '94
E alla rivale?
Tanti! Il numero non lo preciso; l'ultimo però è del 1982!! Questo sta a significare che quando nella Contrada capita il periodo fortunato, se lo sai capire i successi arrivano. Diamine! I successi arrivano anche perché onestamente, non per fare la grandiosa, ma la nostra Contrada in questo momento è molto unita. Una dirigenza molto seria, uno "staffe" Palio eccezionale; consentimi di dire che ci s'ha un Capitano splendido che vuol bene a tutti come fratelli e noi a lui.
Allora Cice, come in una famiglia...
Infatti per me, dopo la famiglia Guideri-Piccioli, c'è la famiglia Tartuca alla quale dedi'o tutte le mie ore libere della giornata, di ogni giorno!
Se te Cice, tu dovesse fa' una previsione per il futuro: durerà ancora la Contrada-famiglia?
lo penso di si perché ci sono le basi bone e di questo sono anche contenta perché ho visto in questi anni fiorire una gioventù veramente eccezionale; e questo nel mio intimo mi dà una gioia immensa. Questi "cittini" l'ho cresciuti anch'io... (Cice mentre dice queste cose è veramente commossa) — ... io sono stata per tantissimi anni "delegata dei piccoli Tartuchini", e l'ho insegnato a volessi bene e ad amare la Contrada, a rispettà le "leggi" che nella Contrada esistono, a fare la festa della Madonna. Per me è cosa veramente... sì ... per me la Tartuca è la Contrada più bella del mondo!!
È tutto?
Si, è TUTTO famiglia e Contrada. Però quando si vince va tutto bene ma quando s'attraversa dei periodi neri? Anche allora si deve vedè l'unità della Contrada.. no? Si, e anche noi abbiamo passato i nostri periodi neri e confesso ci sono stati degli screzi, dei mugugni, delle lamentele, ma 'nsomma tutte cose che poi si sono risolte perché le persone hanno "usato il cervello" piano piano le incomprensioni si sono capite e appianate e oggi la Tartuca è una grande realtà in tutti i sensi. Ci si vole tutti bene e si corre l'uno per l'altro. Non voglio apparì faziosa ma è così... e io sono felice!!
Te sei una contradaiola che sa vince' ma sai anche perde? Questa dovrebbe esse' un'altra dote del contradaiolo.
Sì, so anche perde'... e non ho mai imputato niente ai nostri dirigenti perché so' sicura che ce la mettono tutta. Anche quelli del passato e qui voglio ricordare e pensare a Mauro Bernardoni... quello che ha fatto... il bene che ha voluto alla Contrada... quanto ha dato e quanto ha sofferto... e non ha avuto la gioia di "portare" un Palio da Capitano.
Cice ci speravi?
Ci speravo, ci sono state delle cose che mi hanno dato fiducia... Per esempio? Alcuni signori che abitano a Brescia amici di un mio cugino e che vengono da anni a vede' il Palio ieri mattina mi hanno portato in regalo un ferro di cavallo pitturato di giallo e celeste, l'ho messo nella borsa e me lo so' portato dietro tutto il giorno. Perfino al Duomo di mattina presto, perchè io sono molto devota alla Madonnina del Voto, specie da quando il mi' figliolo ebbe l'incidente. Non possa giorno, se so' a Siena, che non va in Duomo a raccomandarmi a Lei. Prima le parlo della mia famiglia e poi: "Madonnina guardami la Tartuca"!
Il Palio dove l'hai visto?
È consuetudine che la comparsa e i ragazzi che l'accompagnano si fermino lì in fondo al Casato in casa Gigli e io con loro. ragazzi si ravversano i costumi, si riposano, e poi la signora Gigli offre il rinfresco e io l'aiuto e poi di norma torno in Tartuca e vado in segreteria e mi metto a sedere. Invece ieri so' rimasta lì e con la signora Elsa ci siamo chiuse in una stanza e dalla finestra e dalle altre stanze s'è "sentito" il Palio Senza televisione?
Palio all'anti'a visto coll'orecchi e vissuto attraverso i rumori...
Si: la Chiocciola di rincorsa... per noi è finita... so partiti.. poi a un certo punto dalla finestra che guarda il rione dell'Onda s'è sentito... le donne che dicevano: "è Onda..". Allora il mi' cuore ha cominciato a batte' forte... perché io ormai sono così emotiva che non riesco più a vede' il Palio... ho passato una vita a vedello alla mossa 'nsieme a Mauro, Adù e altri amici ma ... ora non ce la fo' più... questa volta non ho "toccato" nemmeno la terra... mi sento male... Però appena è "stata" Tartuca ho corso dal Casato al Duomo e so' stata la prima a baciare l'altare con l'immagine della Madonna.
Appena la Tartu'a ha vinto cos'hai pensato? Che immagine t'è passata per la testa?
La mi' mamma e il mi' babbo, poi i miei e il Capitano Lombardini! È stato più bello questo o quello del '91? Questo! Perché dentro di me ero tranquilla, meno tesa del '91, come nel 1951 dopo meno di tre anni si rivinse e ora è uguale. Però ora io ...so'... l'ultimi anni della mia vita e più si vince e più sono contenta... Il "bello" del Palio è che si corre in dieci e.. vince una sola!!
Grazie e auguri Cice.
A te di tutto cuore.

Cacco, uno, nessuno, centomila

Nel fantasioso estro linguistico senese (e toscano) un nomignolo non nasce mai a caso e basta spesso il suono delle sillabe per farne un significato che calza a pennello con il personaggio al quale è affibbiato. Cacco, a metà tra Ciacco e Cecco, ma più duro e in assonanza con Franco – e non solo – individuava per tutti, in Tartuca,  Franco Pacchiani: schioccava come una sua imprecazione, fulminante come un suo rimbrotto, ossuto come era lui da piccino. Franco nella famiglia Pacchiani – una di quelle da considerare, a buon diritto, costitutive della Contrada – occupava fin dall’infanzia un suo posto, mostrava una sua bizzosa scontrosità. Gcacco1li piaceva stare in compagnia e giocare, ma a modo suo. Quante volte sono andato conFranco nell’affollato Cinema Pendola a passare austere domeniche, sorbendoci un film spezzato in tre o quattro tempi, secondo la resistenza della pellicola, lungo tutto il pomeriggio! E poi in parrocchia a San Pietro e a Sant’Agostino, per via Pendola o nel chiassino: mi vien fatto di inquadrarlo sempre nella perfetta geografia della città Tartuca. Dove Franco ha sempre abitato come un accanito difensore della tradizione, un guardingo custode dei simboli, un micragnoso sorvegliante senza indulgenza. Instancabile, ansioso, iperattivo, Franco Pacchiani è stato Vicario vittorioso nel 1991 e nel 1994, economo dal 1971 al 1974 e poi delegato al protettorato e di segreteria, alfiere di Piazza, attento conservatore dell’arte della bandiera, oltre che rappresentante per lunghi anni della Tartuca in seno al Comitato Amici del Palio nel quale ha ricoperto la carica di vice Presidente e Camarlengo. Ma lui non dava importanza ai ruoli istituzionali o associativi e degli incarichi di volta in volta affidatigli. Lui era – e istrionescamente recitava – il Cacco, un ruolo unico creato e impersonato da lui stesso.
Nessuno era in grado o riusciva a contraddirlo. Franco era, naturalmente, l’autorità massima della ritualità, e giudice implacabile della gestione amministrativi. Aveva un ruolo difficile, che alla Contrada tornava utilissimo. Poteva infuriarsi con chiunque Franco e dire senza fronzoli quello che altri avrebbe dovuto dire con mille prudenze. Al Cacco si perdonava tutto, perché tutti sapevano che a muoverlo erano esclusivamente un attaccamento maniacale, una dedizione senza limiti. Negli ultimi tempi malgrado gli acciacchi e le difficoltà veniva nelle prime ore del mattino in segreteria e lì rovistava carte e interrogava il computer per esaminare, ripensare, verificare. E sempre compiendo al meglio una missione, avendo in testa una responsabilità da assolvere. Per tutti era semplicemente il Cacco, al di là di ogni formale attribuzione d’incarico. Quando accade che un nome o addirittura  un angoloso soprannome definisce la memorabile attitudine di una persona – uno stile e una presenza – vuol dire che nella comunità dove – e per la quale – ha vissuto ha meritato in sommo grado. E la riconoscenza sopravviverà al tratto breve di un’esistenza marcata di giallo e celeste. Per dargli l’addio, nella rattristata cena del primo luglio, abbiamo cantato l’inno della Contrada. Niente piagnistei o retoriche parole che lui non avrebbe gradito. Solo l’Inno, cantato a squarciagola e con le lacrime agli occhi. Pensando: “Franco è andato. La sua passione continua qui”.

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