Cacco, uno, nessuno, centomila
Nel fantasioso estro linguistico senese (e toscano) un nomignolo non nasce mai a caso e basta spesso il suono delle sillabe per farne un significato che calza a pennello con il personaggio al quale è affibbiato. Cacco, a metà tra Ciacco e Cecco, ma più duro e in assonanza con Franco – e non solo – individuava per tutti, in Tartuca, Franco Pacchiani: schioccava come una sua imprecazione, fulminante come un suo rimbrotto, ossuto come era lui da piccino. Franco nella famiglia Pacchiani – una di quelle da considerare, a buon diritto, costitutive della Contrada – occupava fin dall’infanzia un suo posto, mostrava una sua bizzosa scontrosità. Gli piaceva stare in compagnia e giocare, ma a modo suo. Quante volte sono andato conFranco nell’affollato Cinema Pendola a passare austere domeniche, sorbendoci un film spezzato in tre o quattro tempi, secondo la resistenza della pellicola, lungo tutto il pomeriggio! E poi in parrocchia a San Pietro e a Sant’Agostino, per via Pendola o nel chiassino: mi vien fatto di inquadrarlo sempre nella perfetta geografia della città Tartuca. Dove Franco ha sempre abitato come un accanito difensore della tradizione, un guardingo custode dei simboli, un micragnoso sorvegliante senza indulgenza. Instancabile, ansioso, iperattivo, Franco Pacchiani è stato Vicario vittorioso nel 1991 e nel 1994, economo dal 1971 al 1974 e poi delegato al protettorato e di segreteria, alfiere di Piazza, attento conservatore dell’arte della bandiera, oltre che rappresentante per lunghi anni della Tartuca in seno al Comitato Amici del Palio nel quale ha ricoperto la carica di vice Presidente e Camarlengo. Ma lui non dava importanza ai ruoli istituzionali o associativi e degli incarichi di volta in volta affidatigli. Lui era – e istrionescamente recitava – il Cacco, un ruolo unico creato e impersonato da lui stesso.
Nessuno era in grado o riusciva a contraddirlo. Franco era, naturalmente, l’autorità massima della ritualità, e giudice implacabile della gestione amministrativi. Aveva un ruolo difficile, che alla Contrada tornava utilissimo. Poteva infuriarsi con chiunque Franco e dire senza fronzoli quello che altri avrebbe dovuto dire con mille prudenze. Al Cacco si perdonava tutto, perché tutti sapevano che a muoverlo erano esclusivamente un attaccamento maniacale, una dedizione senza limiti. Negli ultimi tempi malgrado gli acciacchi e le difficoltà veniva nelle prime ore del mattino in segreteria e lì rovistava carte e interrogava il computer per esaminare, ripensare, verificare. E sempre compiendo al meglio una missione, avendo in testa una responsabilità da assolvere. Per tutti era semplicemente il Cacco, al di là di ogni formale attribuzione d’incarico. Quando accade che un nome o addirittura un angoloso soprannome definisce la memorabile attitudine di una persona – uno stile e una presenza – vuol dire che nella comunità dove – e per la quale – ha vissuto ha meritato in sommo grado. E la riconoscenza sopravviverà al tratto breve di un’esistenza marcata di giallo e celeste. Per dargli l’addio, nella rattristata cena del primo luglio, abbiamo cantato l’inno della Contrada. Niente piagnistei o retoriche parole che lui non avrebbe gradito. Solo l’Inno, cantato a squarciagola e con le lacrime agli occhi. Pensando: “Franco è andato. La sua passione continua qui”.