La nostra Contrada è una città. Tutte le Contrade sono, un po', una città, perchè tendono ad avere una significativa autonomia nell'organizzazione degli spazi pubblici. Vogliono contenere, nel territorio di loro pertinenza quanto più possibile di rilevanti funzioni, e non solo per coloro che - privilegiati e invidiabili - continuano ad abitarlo. Così in una Contrada ci sono Chiese e Uffici, scuole e piazzette, talvolta ospedali e banche, negozi e, ovunque, i reperti di una lunga, amata, leggendaria storia.

La Contrada è prima di tutto la parte fisica, materiale di città, che squaderna un'inimitabile sequenza di prospetti e scorci. Se non si appuntassero sulle pietre e sui marmi, sul cotto e sui ferri di questa parte conclusa di città i ricordi svanirebbero e con essi le date di una rigogliosa vicenda comune.

Per la nostra Contrada - come per le altre valgono le osservazioni che Italo Calvino un grandissimo scrittore innamorato di Siena - dettò per la sua fantastica Zaira: "Una descrizione di Zaira quale è oggi dovrebbe contenere tutto il passato di Zaira. Ma la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee d'una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano delle scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere, ogni segmento rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, virgole”.

Ognuno è legato alla sua Contrada da vincoli intensi, che dilatano misure e amplificano rapporti. Sarà per questa frequentazione quotidiana, sarà per una immotivata predilezione di affetti: per noi la Tartuca ha la dimensione di una città straordinaria. Più città che quartiere, che del resto è termine che a Siena si impiega impropriamente o per designare aggiunte quasi-moderne fuori delle mura. Più città che rione, parola adatta a definire un ribollente e popoloso dominio, subordinato ad altre parti, distinte e nobili.

Contrada, ci vien fatto di pensare, è davvero insostituibile e la pregnanza assunta a Siena allude immediatamente al risentimento di uno spicchio dell'organismo urbano opposto ad un altro che gli sta di fronte, quasi registrasse un'esplicita voglia di agonismo, di focoso contrasto. Contrada da contro, forse. Contrada come confluenza di strade che s'intrecciano a formare un luogo.

Un misterioso Genius Loci anima traiettorie e simboli, abitazioni e palazzi, musei e trofei. L'animale totemico sotto la cui ombra i giovani della Tartuca hanno sfilato nel Campo s'insinua dappertutto. E' stampligliato agli angoli affilati è conficcato nell'inferriata di è impresso con la vernice nelle lastre della pietra serena - serena perchè azzurrina -, si rannicchia sotto la volta di qualche portone, sbuca trionfante dalla fontanina, dorme al sicuro nelle monture custodite con meticolosa cura per anni e anni.

Semmai questa città è povera, sempre più povera di cittadini. Per un verso o per l'altro, sono stati costretti ad andarsene fuori o lontano. Le abitudini e il lavoro obbligano ad una mobilità che dissolve i vecchi confini. L'ossessiva e protettiva continuità di residenza che favoriva amori e matrimoni, amicizie e avversioni, chiacchiere e pettegolezzi, è scomparsa per sempre. Nessuna nostalgia vale per abbellirla e resuscitarla.

Certo, nell'inmaginazione che rimuove pecche e misfatti, angustie e pene, tutto viene assolto. E per i meno giovani tra noi si ripopola la città della nostra infanzia: con gridi dei ragazzi, i rumori dei mestieri, la piacevolezza degli incontri, il clamore dei saluti.

Si poteva giocare ai barberi per strada non solo nell'appartato vicolo dove, non per caso, ma per doveroso riguardo, ha sede la stalla. Proprio lungo via delle Murella - ribattezzata per il borioso gusto eroicizzante del celebrativo Ottocento “Tomnmaso Pendola” il vezzo ancor non è cessato! - si potevan scorgere, tracciati col gesso, strani, minuscoli itinerari. In realtà erano le piste che arginavano le gare disputate con i tappini. Il ciclismo era invadente e le sue rivalità eccitavano senza requie: Bartali contro Ceppi, Koblet, Magni, Bobet...

Corse sfrenate potevano simulare la frenesia del Palio: si doveva scomparire in Castelvecchio e riscendere verso la via principale, dove incontestabilmente erano stabiliti partenza e arrivo. Le segherie di due falegnami allarmavano quanti avevano delicato orecchio. Il postino si concedeva il lusso di avvisare a gran voce: "Posta in cassetta!". La penuria di acqua, che nel dopoguerra si è fatta sentire a lungo, provocava di tanto in tanto, l'accorata protesta di una massaia dei piani superiori: "Acqua per piacere!". E qualcuna di buona volontà chiudeva il rubinetto per aumentare la pressione.

C'erano la bottega dei generi alimentari e un operoso ciabattino, i giornalai e la rivendita del pesce, una bettola che mandava odore di vino a metri di distanza e, in via de' Maestri - anch'essa battezzata per nome in omaggio a Tito Sarrocchi, scultore apprezzatissimo e quindi ben commemorato da una strada in passato fitta di virtuosi scultori - una modesta e sonora officina del ferro battuto. Se no, non sembrava di essere a Siena.

Una città nella città, dunque. Perchè? E' puro frutto di illusione?

Nient'affatto, crediamo. Anche i nomi delle vie, le Murella, le Cerchia, rammenntano la presenza delle antiche mura, del circuito, anzi, più antico delle mura, che difendeva Castelvecchio. Da lassù si scorgevano, alle origini, gruppi sparpagliati di povere case e sagome di eminenti palazzi, robuste torri e campanili di chiese attorno ai quali si costituiva il popolo di una Contrada o si adunavano gli uomini di una Compagnia militare.

Il cocuzzolo di Castelvecchio desta in noi una punta d'orgoglio e.ci ha fatto coniare versi che non cessiamo di cantare: " ... da noi c'è nata Siena...Sporge giusto all'inizio di via Pendola una parete spugnosa di sassi e scurita dai secoli. A noi piace credere che sia un brano superstite di quella dritta, squadrata parte di mura che definivano un castrum roccioso e impervio. Poi la geometria si è conservata - come un'impronta di fossile -, ma alte case da abitare hanno preso il posto di camminamenti e spalti. Eppure nelle notti di luna, quando Castelvecchio si può intravedere da via delle Murella - chissà: una volta una strada a sterro, che abbracciava con umiltà il giro delle mura salde e chiuse -, contro il cielo si disegna inaccessibile, a strapiombo sulle nostre teste, il profilo di un ecce so maniero di fiaba.

Porta Aurea e Porta all'Arco dettero in seguito sbocco verso la campagna, dopochè l'abitato si ampliò e più tardi il perimetro si allargò ancora fino a Porta Tufi, dove una lapide ricorda le gesta gloriose del manipolo combattivo che, sotto la guida di Enea Piccolomini e Giovanni Maria Benedetti, il 27 luglio 1552, si prodigò in difesa della pericolante Repubblica. Maledetto vizio delle date e delle citazioni da guida erudita! Sarà la prima e l'ultima volta in queste pagine che tutto vogliono essere fuorché una guida. Vorrebbero dar conto di come un cittadino di questa città è portato a leggere gli anfratti e i dettagli di un luogo che, al pari di un libro o di un palinsesto, chiede indagine puntuale e amorosa per svelare fascino e segreti.

Porta Tufi, quando inalbera la balzana o è vestita a festa con le bandiere giallo-oro e celeste-cielo, per noi è luogo di coraggio o di inebriante superiorità civica, di strenua difesa di libertà e diritti. La Tartuca fa pensare ad una macchina da difesa, coriacea e non scalfibile da alcun attacco.

L'intero territorio della nostra Contrada ci appare talvolta un guscio di tartaruga, che copre sotterranee volute e archeologiche vestigia, conosciute molto parzialmente.

La piccola città della nostra vita e dei nostri sogni è un libro da sfogliare, da guardare e da leggere.

Le parole che nasconde non sono decifrabili in un battibaleno. Le figure che tramanda non si prestano a semplificazioni. Ognuno può interpretarlo a suo piacere. L'intelaiatura su cui si regge non si presta a equivoci.

La gerarchia e l'andamento delle strade, ad esempio. La via principale, portante, il Corso, è via Pendola, larga e retta a perdita d'occhio. La sovrasta a semicerchio - la corda di un arco - Castelvecchio, derubricato a vicolo in base a criteri molto burocratici. In parallelo corrono via delle Cerchia e via de' Maestri, separata dall'asse più sviluppato e disteso dalla ruga ombrosa e occlusa del vicolo della Tartuca.

A chiusura due conventi immensi, quello di Santa Margherita, trasformato in Istituto per sordomuti e quello degli agostiniani. Non erano i soli: quelli di Santa Mustiola, dei camaldolesi, della Maddalena e degli Olivetani completavano una topografia sacra e silenziosa, degradante verso la campagna e immersa in un verde coltivato con passione.

I luoghi deputati del sacro non avevano l'uso unidirezionale dei nostri giorni. Le assemblee si tenevano nell'Oratorio, avvezzo ad ascoltare lai e strepiti insieme a bisbigli e preghiere. La Chiesa-madre era, ed è, l'oratorio di Sant'Antonio alle Murella, come noi preferiamo chiamarlo, eccezionale perchè, come avverte Gioacchino Faluschi, “fabbricato dagli Abitatori della Contrada”. Cioè costruito e decorato, inventato e pagato. Incastonato con la sua rossastra e sanguigna facciata lungo la prospettiva della via, si scorge poco a poco e per ammirarlo bisogna guardare a naso all'in su, come capita spesso per il forsennato rispetto con il quale si è salvaguardata la dinamica delle strade e l'esigenza delle proporzioni.

Un ineluttabile processo di secolarizzazione ha ridotto sensibilmente lo spazio del sacro e laicizzato diverse sue propaggini, che serbano comunque qualcosa del raccolto silenzio e della luce ammorbidita di chiostri e conventi.

Così è nei corridoi del Collegio Tolomei, che da un bel pezzo non appartengono più agli agostiniani. Così in quelli del Pendola, che facevamo trafelati, di corsa, a perdifiato, un po' per arrivare puntuali alle proiezioni cinematografiche degli scolopi, un po' per gara, in mancanza di palestre confacenti allo scopo.

Fuori porta San Matteo, appollaiato in alto, con una piazzetta davanti che pare un belvedere e appena più sotto il lento cerchio della Strada del mandorlo, siglata da un piccolo Oratorio legato alla memoria di meditazioni bernardiniane. Anche a Federigo Tozzi rimanda la “Strada del mandorlo”.

Si, perchè i Tufi gravitano sulla Tartuca, in barba ad ogni rigido bando. E se non si è potuto costruire più di tanto è un bene. Se no la lebbra dell'edilizia detta economica e popolare avrebbe sfigurato anche una delle campagne più belle e meglio conservate che sia riuscita a sopravvivere nell'universale corrompimento.

Quando mai si deve sacrificare ad una presunta potenza demografica l'interezza di un territorio che vuole i suoi pieni e i suoi vuoti, il suo verde arruffato e la sua dignitosa architettura, il profumo delle stagioni e il rigore solenne dei monumenti, le iscrizioni delle lapidi e le parole tramandate da un'affabile ed eloquente toponomastica? Il mandorlo e le murella, il salto, il saltarello e la pioggia - già: il vicolo della Tartuca si chiamava “della pioggia” -, i maestri e il prato di Sant'Agostino.

Disseminati qua e là quanche monogramma di San Bernardino e tabernacoli per la Madonna, advocata senensium: il più solenne o pretenzioso giusto al confine, appena varcato l'Arco di Santa Lucia, con un cartiglio che più consapevole non si potrebbe compilare: “Hic ubi Sena tuo nata est de numine virgo se totam pedibus subjicit ipsa tuis". Siena è nata proprio qui. Per un tabernacolo - vien fatto di lamentarsi - dotato di tanto di didascalico cartiglio quanti vuoti, cornici senza più inmagine, nicchie senza oggetti! Erano, i tabernacoli, la segnaletica la definizione è di Giorgio La Pira ~ della città cristiana ed ora son diventati riserva di caccia per antiquari senza scrupoli e turisti in affannosa ricerca di colore. In Castelvecchio ai nn. 18 e 67 due vuoti offendono lo sguardo di chi volesse ritrovare un frammento di pietà. Altrove sussistono, perché prive di alcun pregio commerciale, minuscole nicchie, protette da una grata così fitta che la Madonnina che si scorge dentro ha l'aspetto di una prigioniera nascosta. Bisognerebbe proprio rimetterli a posto, come si fece per quello di Niccolò di Buonaccorso ai Quattro Venti, poco distante dalla porta d'ingresso ideale che immette nella Contrada, rivolta, come vuole la consuetudine, verso il vuoto calamitante della conchiglia del Campo.

Lasciamo stare l'archeologia in vista che fa mostra di sè con rari e inquietanti reperti in Castelvecchio, ma talune iscrizioni merita no davvero un cenno.

All'inizio della rapida pettata di Castelvecchio, e di via Pendola due, fotografatissime, rammentano che “nissuna meretrice ben che maritata” poteva abitare in case che avessero la porta su quelle strade. Ambedue sono state piazzate lì dagli esecutori di Gabella, che riscuotevano le tasse corrisposte per l'amor clandestino, tra la metà del Seicento e gli inizi del Settecento. Ma la loro efficacia, a quanto si sa, non fu più rilevante di quella attribuita alle grida da Alessandro Manzoni. Castelvecchio se l'è battuta, quanto a case di piacere o individuali prestazioni a pagamento, con Salicotto. Sarà un caso - ma si può ipotizzare un'incoercibile conservatorismo? - la Chiccona e Iride sono due nomi d'oro della prostituzione professionalizzata e l'una rimanda ad un portoncino ben noto nel poggio vetusto della Tartuca, l'altra ai dintorni del Ghetto.

Una delle strategie messe in atto per allontanare il disdoro delle pratiche postribolari era il criterio delle cento braccia, in base al quale non si poteva installare ad una distanza, appunto, di cento braccia da un convento alcuna donnetta di malaffare. Chissà quante polemiche e quante misurazioni, vista l'estrema densità di conventi e chiesuole! Il fatto è che, più o meno vistose e appetibili, le meretrici continuarono tranquille a svolgere le loro faccende. Ed oggi vale riportare alla luce piena - come si va facendo - le pagine dimenticate o censurate della loro esperienza senza moralismi e senza infingimenti, senza becera pruderie e senza crasso compiacimento.

Città di anime devote e vispi avventori in cerca di rapidi piaceri, di sommesse preghiere e di culti radicati, di artisti curvi sul marmo a modellare forme studiatissime e di insegnanti per vocazione dediti a restituire capacità di dialogo e di ascolto a chi ne è stato privato.

Caterina Vannini dopo le turbolente notti romane dove poteva trovar miglior ricetto che qui? E padre Pendola da dove poteva meglio muovere verso la sua impresa gigantesca di benefica solidarietà? Una lapide ricorda come proprio accanto all'Oratorio “ pochi infelici sordomuti dolcemente adunava e paziente istruiva”.

Una Contrada è un insieme ben strano di personaggi e macchiette, di santi e di guerrieri, di nobili svagati e popolani esigenti. La Società di mutuo soccorso fu fondata nel 1887 in Castelvecchio, a due passi dal casino, e si capisce perchè.

Espressione di una fratellanza alimentata dalle classi subalterne non poteva essere allocata se non più tardi nella strada principale, accanto alla Contrada, venerabile istituzione ufficiale e neutra.

La gerarchia delle strade ordina anche funzioni e classi. Ora le strade non sono più tramite di quotidiana, conversante, confidenziale socializzazione. E di tartuchini nella loro città ne abitano sempre meno. Ogni progetto teso a recuperare abitabilità per i contradaioli è benedetto, sacrosanto, entusiasmante. Ma è giocoforza che per molti la Contrada divenga un porto, auspicabilmente sereno, al quale approdare di tanto in tanto, la sera o tornare durante le vacanze da lontano, da Arezzo e da Pisa, da Parigi e da Londra. Se non si mette piede in Tartuca è come non essere mai arrivati in patria. Senza la piccola patria degli affetti la grande - e poi non grande, a dire il vero - città è insensata. Se non si guarda da un punto di vista resta un universo senza regole, confuso e disordinato.

Il verde da noi è scientifico e magico con l'Orto Botanico, garbatamente rustico dietro al Tolomei, ormai consunto e polveroso in quello che era il Prato di Sant'Agostino.

Alloggi protetti, senza spazi per giocare orticelli da coltivare daranno - è lecita un non rassegnata speranza? - vitalità diffusa ad un territorio che offre ricovero a molt attività terziarie e didattiche. E tutto questo sia detto senza rancore nell'anno del 750 anno dalla fondazione dell'illustre Ateneo. La questione riguarda Siena e solo a grande scala si potrà risolvere. Riguarda pure chi disponendo di qualche casa da affittare, non trovano di meglio che riempirla dei più redditizi affittuari.

Alle sue sedi accademiche la Tartuca, de resto, ci tiene. I ragazzi che visitano le collezioni dell'Accademia voluta da Pirro Ma ria Cabrielli ne escono divertiti come da un cavalcata nella fantasia e gli scienziati danno credibili assicurazioni sul valore del patrimonio colà depositato e classificato.

Le farfalle multicolori e gli uccelli impagliati non sono stati mai consegnati ad un obitorio di lusso o ad un asettico ricovero per occhialuti docenti. Li abbiamo immaginati o sognati in volo, con i protagonisti del pliocene senese: insieme alla Balaena etrusca e al l'Elephas meridionalís danno luogo ad un paesaggio popolato di animali veri, distanti dalla lambiccata mostruosità messa in vendita per il collezionismo avido dei bambini d'oggi.

Nell'Orto Botanico ci fu chi, anni addietro, voleva far nascere uno zoo di tutto punto contradaiolo, con tartuche, istrici, giraffe, pantere e consorelle. Il progetto si arenò e l'Orto è restato un paradiso di colori e di piante, ma l'idea non era affatto peregrina. L'immaginario dei senesi è in bilico tra esattezza e fantasia, tra scherzo e realtà. Come la città-Contrada che, dentro la città più ampia di tutti, costituisce un centro sbilenco di gravità, un raccordo personale, parametro di ogni discorso, confluenza di presente e passato.

I volti del passato si alternano alle facce del presente, le voci degli amici alle urla degli stranieri che si son fatti prendere dalla nostra febbre.

Quando dobbiamo mostrare a qualche visitatore non distratto angoli riposti che c'inorgogliscono c'ingegniamo a disseppellire qualche curiosità. Secondo le occasioni indichiamo la lapide che, sotto il portico di Agostino Fantastici, segnala il luogo di sepoltura di Jacopo della Quercia “massimo degli scultori senesi”, “nuncio del secol d'oro". Durante i mesi che hanno assistito al trionfo di Domenico Beccafumi molti li abbiamo fatti sostare in via de' Maestri, davanti alla lapide che abbellisce la casa che fu del Mecarino. A vederla di lontano la diresti una chiesetta. Invece si capisce subito che si tratta di una bizzarra citazione, conservata con rispetto nella sequenza delle case più modeste dalle quali appena un poco si spicca, provocando grata sorpresa. Nascosta e appena visibile dal castellare, la Torre dei Conti di Tintinnano.

Dentro il Museo i costumi delle feste e i drappelloni della gioia, con le date di un calendario per fortuna inesportabile. "Te lo ricordi l'Arzilli?". "Quella volta Amaranto poteva farcela". "Ci davamo appuntamento in Fontanella". "A Sant'Agostino, quando nevicava, che pallate di neve!". Ognuno di questi luoghi ha la nostra età, chiude la nostra storia. Riflette i nostri sentimenti. Sarà ancora così?

Si trovi un ricovero alle macchine invadenti ed estranee. Si tolga troppa segnaletica sovrabbondante che deforma e interrompe, banalizza e ripete inutilmente. I progetti per i quali ci battiamo non portano alla restaurazione di un passato che non potrà più rivivere. Semmai vorrebbero dare al futuro il sapore discreto di una civiltà o, se si preferisce, di una cultura che non ci rassegniamo a dichiarar morta. E che è, fieramente, cultura della città, di ogni sua piega, dei suoi angoli meno noti, dell'arrovellato e sinuoso gheriglio del suo imprevedibile annodarsi e aprirsi.

Abbiamo camminato nel solare pomeriggio di una domenica di settembre per i vicoli e le vie della Tartuca. Il fruscio delle bandiere che spuntavano qua e là e schermavano la luce dava al percorso il ventilato sussurro di un bosco, di una piccola selva. Tartuche di legno si aggrappavano ai braccialetti, luccicando come pietre preziose. Dal giallo oro si erano staccate - non ne potevano più di essere immobili e araldiche - schiere che si erano sparpagliate per la città, stampigliando con la loro sagoma le lastre brunite.

Avevano lasciato Castelvecchio, la loro dimora preferita, per far festa. Quando il pesticcìo le avrà consumate e cancellate la pioggia, si daranno da fare perchè non vedono l'ora di sgranchirsi le zampe a zonzo libere, pigre e prudenti, oltre i sicuri confini assegnati dal mito.

Roberto Barzanti

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