Dario Stanghellini. Il cuore antico della Tartuca
Me lo dissero mentre con il fazzoletto giallo-celeste al collo, mi recavo alla cena della "prova generale". Sarà successo a molti altri. Un liquido amaro scese dentro di me immergendomi in un dolore selvaggio e insopportabile. Il "mio" Dario, il "nostro" Dario se ne era andato nell'eterno silenzio mentre appena la sera precedente era alla cena con noi, per il grande piacere di stare insieme, mentre nella stalla il cavallo a dondolo che ci avevano assegnato nella "tratta" mangiava lentamente le carote rischiarato dalla piccola luce accesa sotto Sant'Antonio. Invidiai tutti coloro che al posto del cuore hanno una pompa di plastica ricoperta di ispidi peli di facocero. Infatti non sentono nulla per nessuno. E ce ne sono tanti, più donne che uomini. Poi mi resi conto che non di invidia debbono essere avvolti ma di commiserazione. Perchè non riescono a vedere neppure uno spicchio di sole. La tristezza era calata in Piazza Sant'Agostino e non se ne andò mai. Anzi. Quando parlò Roberto Barzanti, Priore, intensificò il senso di vuoto e quando parlò Pierangelo Stanghellini, Capitano, suo figlio, si sentì la fatica che gli costava. Riapparvero le lontane primavere, gli anni che erano trascorsi veloci, i momenti che ci avevano visti insieme, lo scambio dei nostri pareri, la consapevolezza di non poterli più rivivere, di non poter più sciogliere insieme le nostre angustie quasi per liberarsene o alleggerirle un poco. Era stato il più bel "duce" della Tartuca, posto che ereditò da Vero Vagaggini, subito dopo la guerra. Esisteva allora la consuetudine di dare un omaggio ai nuovi protettori il giorno della festa titolare. Venne a Pietro Tamburi, Vicario, l'idea di fare una bella fotografia a mezzo busto al "duce". Galliano ci dette la cesta che si usava in Piazza nel giorno del Palio, proprio per raccogliere le armature pesanti del "duce" e del "fantino" dopo il corteo. Ci mise l'elmo, i bracciali, la cotta in velluto e broccato. Si portò alla Lizza, dal Brogi (fotografo tartuchino), e ne uscì fuori un bel ritratto che io incorniciai, dopo averlo colorito, ed era su un mobile di salotto, appena si entrava nella mia casa dell'orto botanico. Ci stette tanti anni, i più belli della vita. Dario era orgoglioso di aver donato questa sua presenza alla Contrada che tanto amava e per la quale lavorò a cottimo per tanti anni. Quando eravamo ragazzi, ed io rubavo qualche ora del giorno estivo per giocare con i miei amici di Sant'Agostino, Dario era con "quelli grandi" che se ne stavano un po' appartati e non si divertivano più a giocare a calcio, a nascondino, a correre il Palio. Era con Libero Bartalucci, Alberto Giannini della Pantera, Magneto Bianchi, Gerardo Brandani e tanti altri come lui. Se intervenivano nelle nostre cazzottate di pulci, smettevamo subito e ubbidivamo, come era d'uso verso i giovani o, Dio ci guardi, verso le persone di una certa età. Avevamo tredici, quattordici anni e per la prova generale guardavamo mangiare gli altri dall'inferriata di Castelsenio. Poi venne la guerra. In quell'ottobre 1940 noi andavamo al liceo e ad altre scuole e loro partirono soldati. Nel 1945, quando finì tutto, in divisa c'eravamo stati diversi. Chi rientrò presto, chi ritornò più tardi per via della prigionia, qualcuno non ritornò più. Dario era stato prigioniero dei tedeschi, carabiniere ausiliario, vicino a Praga. Me le raccontava spesso quelle sue avventure alcune difficili, altre paurose. In quei momenti cinque o sei anni di più o di meno non significavano più nulla. Si diventò tutti amici e ci si dette del tu. Il "lei" era riservato al Priore, al Vicario, al Capitano, al sor Augusto, a suo figlio Giovanni, a Silvio Gigli. Anche a Galliano, per quanto mi riguarda, anche se subito mi comandò di dargli del tu. Come fece anche Silvio, ma sei anni dopo. Perchè l'aria che respiravamo, il comportamento, la buona educazione, la sensibilità non erano cambiati. Non erano cambiati il rispetto, l'affetto, i principi, la parola data, la puntualità, la generosità, i sentimenti, la bella musica, la cortesia. Quell'anno, dopo tre Palii e la "vittoria morale" (quando si portò via il cavallo per non sottostare ai soprusi del mossiere) organizzammo una cena che doveva sopperire al banchetto annuale, sotto le Logge di Sant'Agostino (dove saremmo tornati per la prova generale nel 1955). Ci demmo tanto da fare. La domenica mattina ci alzammo alle cinque con Galliano che ci guidava, per attorcigliare - come prima cosa - lunghi festoni intorno alle colonne, fatti di foglie di alloro. Poi se ne misero altre orizzontali. In cima alla scala ci saliva con grande maestria Elio Cini e Ivo Giachetti andava nell'altra dirempettaia. Furono messe tante lampadine perché "le logge sono dispersive" diceva Ivo e Galliano gli dava ragione. Il menù fu scritto a macchina, uno a posto. Dario, quando si mise a sedere con Nice lesse e mi chiamò: "Che roba è questa?". Mi indicò l' "insalata russa". "E' prima volta che mi apprestavo a mangiarla. il "menù" era stato fatto dai cucinieri del Tolomei che fecero la cena (pagandola, naturalmente). Avevano pochi convittori perché l'anno scolastico, intelligentemente, si apriva il primo ottobre e quella era l'ultima domenica di settembre. Finita la cena, nel salone del convitto, si aprirono le danze in onore dei "reduci e famiglie". Per questo erano presenti le donne. A un certo punto lasciò il ballo Dario e mi disse abbracciandomi: "Giulio, ti sei dato tanto da fare ma io ti ringrazio a nome di tutti i reduci!". Nessuno mi aveva detto una cosa del genere. Mi rimase stampigliata nel cuore come un tatuaggio. Ci incontravamo spesso da Galliano, a Castelsenio (ne fu anche presidente) e, da quando era in pensione, a Piazza Tolomei, a Piazza Salimbeni, all'angolo di Via delle Terme da dove lui tornava verso casa. Parlava volentieri di Tartuca e del Siena e di Siena. Da trenta anni, forse più, quando tutto era così cambiato e diverso per noi, ci sentivamo più vecchi e si rimpiangeva il passato.
Salvo che i progressi in medicina e farmacia, si sottolineava. Ma allora eravamo immersi nell'umanità, ora nelle macchine. C'era una bella differenza. Fece il Camarlengo con precisione, che era in lui tipica, il Vicario generale. "Se proprio non c'è nessuno meglio di me o che non lo vuol fare" ci disse. Hanno tutti imparato qualcosa di estremamente importante da Dario. Di un'epoca nella quale ci sentivamo felici di ricevere una cartolina da S.Quirico d'Orcia o da Firenze. Si ringraziava mille volte il mittente. Ora é bene non scriverle perché coloro che le ricevono si sentono umiliati da quel tenero pensiero che loro non hanno. Oppure sbruffano perché dovrebbero rispondere e fanno tanta fatica. Oggi non si saluta più, non si ringrazia più, non si simpatizza più. Si paga le tasse a un governo ladro, ci si rivolge all'ospedale che paga venti milioni al mese i "segretari generali", si spendono stravolgenti cifre in farmacia, si entra nei negozi dove le commesse si alzano in piedi sbuffando, si vive sempre più in solitudine perché gli amici muoiono ma anche gli altri non ti vogliono. Si parlava anche di queste "consolazioni" con Dario. Era uno sfogo necessario. Ora tutti quelli che gli volevano bene non lo vedranno più. Ma che abbiamo nella Tartuca che tante care e importanti persone muoiono in giorni di Palio? Il 27 giugno 1957 morì il Priore Giuseppe Mazzini. Il 12 agosto 1968 morì il Priore Ottaviano Neri. Il giorno del Palio d'agosto del 1995 morì quello che era stato uno dei più grandi Priori, Giovanni Ciotti. Alla vigilia del Palio Straordinario di quest'anno se ne è andato Dario. Il destino ci ha voluto togliere il sorriso, come fosse una perfida donna. Addio, Dario. Inizierà anche il nostro sonno. Come è scritto e come è giusto.
Giulio Pepi
Nella foto in alto scattata all'Orto Botanico nei primi anni '50 Dario Stanghellini si riconosce al centro tra Pietro Tamburi e Galliano Gigli.