L'Eremita di Porta all’Arco

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Il secolo XIII iniziava in una Siena ghibellina in aperto conflitto con la guelfa Firenze. Scontri dalle alterne fortune vanificavano la pace: anche l’ultima, firmata a Poggibonsi nel 1203, non sarebbe durata a lungo. Siena si preparava all’ineluttabile premendo ai confini, ormai stretti per i suoi traffici e i commerci.

All’interno delle mura, giovani menestrelli pizzicavano le loro mandole per le serenate alle madonne, nel tempo degli amori, terreni, di Ippolito Saracini e di Cangenova dei Salimbeni, di Uguggione Rinaldini e Attilia Tegolei, e dell’estasi ascetica, fatta di preghiera e solitudine, delicato contrappunto alla crudeltà della guerra. L’odierno arco di Sant’Agostino era la solida Porta all’Arco del secondo cerchio protettivo di mura entro il quale i monaci del Vivo avevano costruito un convento, l’Abbadia all’Arco, accanto alla chiesa di Santa Mustiola.

L’orto annesso aveva dato asilo, in un angolo tra olivi e pini, al “Monaco di Sant’Andrea”. Ultimo discendente di una nobile famiglia senese, recava sul petto un’enorme cicatrice, testimone delle tante battaglie combattute da prode fin quando, sotto Montalcino, un intero drappello di cavalleria l’aveva sopraffatto e lasciato per morto. Egli si era raccomandato a Sant’Andrea trascinandosi tra i feriti verso il fiume e, salvatosi, da allora era penitente. Una sola volta al giorno i Camaldolesi lo incontravano per portargli la zuppa calda. Nelle notti di luna stava davanti alla sua capanna, inginocchiato con le mani rivolte al cielo, quasi fosse il Profeta Isaia in preghiera, coi capelli bianchi, la barba incolta, il profilo incisivo. Le donne di Castelvecchio gli portavano i bambini a benedire, gli uomini cercavano consiglio e conforto.

La guerra tornò con le sue razzie ed i feriti giungevano in città e nel convento; l’avversario era potente, forte di più uomini e cavalli. Il Monaco di Sant’Andrea si aggregò alle truppe senesi dirette verso la Berardenga.

Pareva che il Santo gli avesse detto in sogno “Salvai un senese” ed egli aveva capito. Non volle armi ma solo la bianca insegna della Compagnia di Porta all’Arco che raccoglieva gli uomini di Castelvecchio e delle Murella. Lo scontro avvenne a Montalto della Berardenga, nel 1207, disastroso per Siena, perfino le insegne ed il carroccio perduti, un eccidio nel quale molti cadaveri, resi irriconoscibili, rimasero insepolti. Si cercò anche di notte coi lumi e fu trovato il Monaco. Il bianco vessillo di Porta all’Arco era zuppo del suo sangue, ma miracolosamente un’immacolata e splendente croce di Sant’Andrea l’attraversava. Da allora la Compagnia d’Armi di Porta all’Arco inalbera un’insegna rossa con croce trasversale bianca, così comela Compagnia di Sant’Agata, con la sola aggiunta del busto della Santa e le sue iniziali. Sotto queste bandiere combatterono con valore i giovani della nostra Contrada, in nome della Repubblica di Siena, da Montaperti a Torrita, da Poggio Imperiale a Camollia, “negli spalti delle mura e nelle audaci sortite dell’assedio”.

Il ricordo delle due antiche Compagnie Militari sopravvive  oggi  nelle organizzazioni collaterali della Contrada, così come nell’araldica e nei costumi. E lo spirito dell’Eremita? C’è chi ha giurato di averne visto il fantasma, chi lo ha ritrovato in un volto indistinto, seminascosto nelle vecchie foto; in Contrada è divenuto sia custode della tradizione sia figura singolare, tanto da averlo preso come spunto per burle innocenti, scevre da qualsiasi blasfemia o mancanza di rispetto, ma tra il serio e il faceto, il sacro e il profano, Siena si è sempre tenuta in equilibrio, irradiando il suo spirito libero e allegro anche nei momenti più seri e più bui.

Bibliografia:  

Contrada della Tartuca, Bazza a chi Tocca, Numero Unico pubblicato in  occasione della 44 Vittoria e 1/2 riportata sul Campo il 16 agosto 1951 dalla Contrada della Tartuca, Siena 1951.

Michele Buono Mascagni

 

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