Lae. L'omone.
È un sole gelido quello che si affaccia in via Tommaso Pendola in questa domenica. L’aria è riempita solo dai sussurri ed i mormorii di amici squassati da un dolore sordo, inconcepibile, insanabile.
Il cielo è limpido e vuoto. Vuoto, come la voragine che sento nel petto. Vuoto come questo foglio bianco. Vuoto come lo spazio lasciato dal nostro Laerte.
È difficile uscire da questo dolore per ricordare una delle persone alla quale si vuole più bene.
Da dove si può cominciare nel ricordare un amico, con il quale si è condiviso innumerevoli momenti di vita. Momenti felici, spensierati, avventurosi, difficili, tesi. Con il quale abbiamo assaporato qualsiasi sfaccettatura di emozione possibile che la vita ti può mettere di fronte.
Celebrare, ricordare, commemorare, un amico quando vorresti solamente averlo con te, stringerlo, abbracciarlo, parlarci. Scrivere adesso, sapendo che non sarà più possibile, sapendo che è irrimediabilmente impossibile. Come si può accettare e metabolizzare un simile vuoto? Non è possibile. Le lacrime sgorgano e fluiscono. Serve forza. La forza di non pensare a quel vuoto.
Quel vuoto lo dobbiamo riempire, con quello che Laerte ci ha lasciato. Laerte e la sua compagnia sulla quale si poteva sempre contare, la compagnia di una mente intelligentissima, che consentiva di avere una conversazione brillante di ogni argomento (quasi come un’enciclopedia). Anche di quegli argomenti di cui diceva di non sapere nulla o di non saperne abbastanza, ne sapeva comunque parecchio più di te! Una compagnia stimolante, fucina di idee, capace di accendere il dibattito, difficile da vincere, per la testardaggine e per il suo, appunto, infinito sapere. Abbinava la sua monumentale cultura ad un carattere schietto, sincero, di quelli che difficilmente si piegano al compromesso, se non lo vedeva d’accordo. Carattere che gli consentiva di prendere posizione, magari non sempre quella con la quale eri concorde, ma sapeva sempre argomentare.
Come possiamo tratteggiarlo con degli aneddoti? Ne abbiamo vissuti innumerevoli.
Lo vedo lì, in prima fila in ogni situazione. Quando c’era da molare pezzi di ferro per costruire un carro (per ogni corteo della Vittoria), in prima fila se si doveva far da ciceroni e spiegare le bellezze della Contrada, del museo, della Città, a turisti e stranieri, in prima fila quando i suoi centimetri e le sue manone lo rendevano abile e utilissimo Muli-nello!!!
Lo vedo lì, sotto un ingeneroso sole cocente della Buca del palio di Fucecchio, seduto su un masso all’ombra dei pioppi, che si chiedeva il perché fosse lì a subire quella tortura. Lo vedo lì concentrato e organizzatissimo nell’organizzare un viaggio o un’attività per i Giovani di Porta all’Arco. Quei giovani che gli davano tanta soddisfazione, che gli davano energia ed incredibile voglia di fare, che in altri momenti gli mancava. Lo vedo lì a vivere i giorni di palio sacramentando notevolmente, in quel suo passare dallo stato d’animo catastrofista e pessimista allo stato d’animo roseo e positivista, in modo viscerale e passionale al limite del dolore fisico.
Lo vedo lì, pensieroso nel salotto di casa di un fantino, ad elucubrare teorie paliesche. Lo vedo lì sul divano in Andalusia dopo aver passato una nottata a giocare a tetris, lo vedo lì sul divano di casa con i lunghissimi piedi sul sofà, che illustra la sua ultima campagna nel videogioco Football Manager, o una qualche sua teoria su un film, un libro, un tema sociale, un tema politico.
Lo vedo lì che racconta la sua abitudinarietà, che decanta il pane con l’olio (quando è periodo “Quanto è bono il pane con l’olio novo”) o i pomodori dell’orto, che mangiava tutte le sere (sempre quando era periodo) con la nonna.
Laerte era un omone, capace di presentarsi con ore di ritardo (o non presentarsi affatto), capace di amare la solitudine (“Oh ma che belli i tempi della pandemia, che si doveva stare ognuno a casa propria), ma allo stesso tempo non si tirava indietro nelle serate in compagnia dei suoi amici.
Laerte aveva tantissimi interessi e non potremmo elencarli, ma più di ogni altro, vista la pagina sulla quale scrivo, voglio ricordare quanto amasse la Tartuca. L’amava che era una delle sue ragioni di vita, l’amava e voleva contribuire fattivamente con le sue doti pratiche (“senza tanti fronzoli ci si mette all’opera e si fa”) e quelle teoriche, ho già detto della sua mente brillante e fucina di idee. L’amava come noi amavamo lui.
Ed ora, come facciamo? Come è possibile accettare ed andare avanti? Non lo è. Non è possibile accettare. Non ora almeno, il dolore è troppo fresco. La mancanza e lo spavento per sapere quanta sarà la mancanza chiude lo stomaco, fa male come un cazzotto.
Ma c’è una certezza: dobbiamo prendere ad esempio Laerte, il suo slancio contradaiolo. Dobbiamo prendere tutti i ricordi di lui e renderli immortali. Ci faremo forza l’un l’altro e Laerte sarà sempre lì, con noi, con il suo nichilismo, con la sua battuta, con la sua sapienza, con la sua soluzione pronta, anche se non giusta o perfetta. Lo sento sempre qui, vicino, vivo nel cuore e nella mente, lo sento sempre qui con noi.
Non gli diciamo “Addio”, a quel moro dagli occhi scuri alto alto e dalla camminata scoordinata, gi diciamo “Ciao, ci si vede su domani” e domani penseremo che sia solo in ritardo, come sempre, avrà fatto uno di quei suoi pisolini che vanno un po' lunghi.
Ciao Omone, ci si vede su, se non è domani, sarà un altro giorno.
(Matteo Pagliantini)